lunedì 31 agosto 2009

La Patristica: nasce la cultura occidentale
















La Patristica è l’epoca in cui la Chiesa, attraverso l’opera dei cosiddetti Padri, riesce a presentare le verità cristiane nella cultura e nel linguaggio del mondo classico, greco e romano.

Si va dal I secolo (Clemente Romano) al secolo VIII (Giovanni Damasceno).

Si può anche dire che, attraverso l’opera dei Padri, vengono poste le basi della cultura occidentale; quella cultura di cui noi, consapevoli o meno, siamo gli eredi.

Per capire il lavoro gigantesco che sta dietro a questo cambiamento epocale, basti dire che le opere patristiche sono state raccolte e pubblicate dal monaco francese Jacques-Paul Migne nel corso del 1800 in ben 217 volumi di autori latini (Patrologia Latina, PL) e in 166 volumi di autori greci (Patrologia Greca, PG).

Soltanto per S. Agostino abbiamo un migliaio di opere, e per Origene sono ricordati iperbolicamente ben 6.000 titoli, del quale però rimangono solo le opere principali.

A S. Girolamo invece si deve il merito di aver tradotto in latino tutta la Bibbia, Antico e Nuovo Testamento, dal Genesi all’Apocalisse, 73 libri. Un’opera colossale.

S. Girolamo conosceva perfettamente il greco, in cui è scritto il Nuovo Testamento. Per apprendere meglio l’ebraico, in cui è scritto quasi tutto il Vecchio Testamento, prese dimora in Palestina, a Betlemme e lì concluse la sua vita.

Il latino era la sua madrelingua, e per di più egli aveva avuto come maestro il grande grammatico e retore Elio Donato, che si ispirava a Cicerone.

La traduzione che S. Girolamo ci ha dato della Bibbia è la famosa Vulgata; non solo un’opera linguisticamente perfetta, ma fino al Concilio Vaticano II la Bibbia latina ufficiale della Chiesa cattolica.

La perfezione linguistica, oltre che l’aderenza ai testi, era la sua massima aspirazione.

Egli stesso raccontò un suo incubo; sognò di essere condannato da Dio con questa accusa: “Tu non sei cristiano, sei ciceroniano!”

E invece, proprio la musicalità, la perfezione e la fedeltà della Vulgata hanno dato al mondo un capolavoro di bellezza e di fede.

Oggi si possono notare alcune imprecisioni, che sono state corrette.

Ma solo il genio di S. Girolamo, il grande discepolo di Elio Donato e l’emulo di Cicerone, poteva donarci un’opera talmente bella da apparire ispirata da Dio, come i testi originari.

Ricorderò solamente che il primo libro dato alle stampe, da Giovanni Gutenberg di Magonza nel 1455, è stata la celebre “Bibbia a 42 linee” (o "Bibbia Mazarina") nella versione di S. Girolamo, cioè la Vulgata.


Nella foto in alto: "Bibbia a 42 linee", stampata da Giovanni Gutenberg, 1455, Biblioteca Mazarina, Parigi

domenica 30 agosto 2009

Un po' di nostàlghia... Ma quanto è brava la pianista!



I ventiquattro preludi di Sergej Vasilevic Rachmaninov (1873-1943) rappresentano un banco di prova per ogni pianista per le difficoltà che presentano. Oltretutto il compositore russo (e grande pianista egli stesso) aveva mani lunghissime, e ha scritto musica in proporzione alle loro dimensioni...

I preludi non sono però soltanto un esercizio virtuosistico, ma evidenziano caratteristiche tipiche dell’animo russo. Vi sentiamo spesso l’ispirazione di Tchaicovskij.

Questo Preludio, Op. 23, n. 5 in Sol minore, del 1907, sembra aprirci immediatamente agli sterminati orizzonti di quell’immenso territorio, e ci fa provare un anelito di libertà di fronte a spazi sconfinati; rappresentato magari da cavalli lanciati al galoppo nella steppa o dal procedere sferragliante del treno della Transiberiana, da poco allora costruita.

Nostalgia, anzi, nostàlghia; una caratteristica del popolo russo, e che Rachmaninov ha saputo esprimere perfettamente in questa breve, ma intensa, composizione.

Grande performance della pianista ucraina Valentina Lisitsa.

venerdì 28 agosto 2009

S. Agostino: Ama e fa' ciò che vuoi




In questo giorno nel quale si ricorda S. Agostino mi pare doveroso presentare qualche aspetto essenziale del suo pensiero.

La prima battaglia ideale l’ha combattuta contro lo scetticismo. Per tutta la vita ha cercato la verità, finché è approdato alla fede cristiana. Diceva: “Signore, ci hai creati per te, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te”.

L’uomo è fatto per la verità, non per l’errore e per il falso. Infatti “possiamo ingannare gli altri, ma nessuno vorrebbe essere ingannato”.

La ricerca di Dio non è un aspetto secondario, è il tema centrale della vita. L’uomo è “capace di Dio”, perché dentro ognuno di noi ci sono “semi di verità” (rationes seminales), “principi eterni”, di qualunque genere, di logica, di matematica, di morale; e questi non possono venire solo dalla nostra natura mutevole, ma originariamente da una realtà immutabile, cioè Dio.

Ecco perciò l'ammonimento agostiniano: “Non uscir fuori di te; rientra in te stesso; nell’intimo dell’uomo abita la verità; e se ti trovi mutevole, trascendi te stesso”.
Trascendi te stesso significa: cerca l’origine della verità sopra di te, in un essere perfetto.

Solo l’amore spinge l’uomo ad agire, perché solo l’amore dà quella pace, quella beatitudine che è il desiderio di ogni essere umano. “Ama e fa’ ciò che vuoi” (dilige et quod vis fac).

Ed è l’amore il fondamento dell'umana convivenza: “Due amori fondarono due città: l’amore di sé fino al disprezzo di Dio ha fondato la città degli uomini; l’amore di Dio fino alla rinuncia di sé ha fondato la città di Dio”.

Queste due città sono “intrecciate” (perplexae). Per cui nessuno può giudicare anzitempo.
Solo Dio saprà riconoscere nel giudizio finale coloro che gli appartengono.

La scelta umana è frutto del "libero arbitrio". Nel bene e nel male l’uomo è libero. Libero di aderire alla città di Dio, cioè alla ricerca della verità e del bene, o alla città degli uomini, cioè all’egoismo fatto sistema.

Solo nel possesso di Dio, amore infinito, il desiderio dell’uomo sarà pienamente appagato. “Signore, ci hai creati per te, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te”.

Ecco come Agostino descrive la sua esperienza di conversione, nel libro Le Confessioni (10, 27):

"Tardi ti ho amato, bellezza così antica e così nuova, tardi ti ho amato.
Tu eri dentro di me, e io fuori. Lì ti cercavo. Deforme mi gettavo sulle belle forme delle tue creature. Eri con me, e io non ero con te. Mi tenevano lontano da te le tue creature, inesistenti se non esistessero in te.
Mi chiamasti, e il tuo grido sfondò la mia sordità; mi lluminasti, e il tuo splendore dissipò la mia cecità; diffondesti la tua fragranza, e respirai e anelo verso di te; gustai, e ho fame e sete; mi toccasti, e arsi di desiderio della tua pace".



Foto in alto: "S. Agostino nello studio", Sandro Botticelli (1480), Chiesa di Ognissanti, Firenze

giovedì 27 agosto 2009

Dolce e chiara è la notte...



Una musica dolcissima, delle immagini stupende, una magnifica notte d’estate...

La musica è di Chopin, come si addice alla notte, ma non è un notturno; è il Valzer op. 64, n. 2, in Do diesis minore, del 1831.

Le immagini riproducono disegni di celebri pittori moderni e contemporanei; non voglio togliere ad altri il piacere di ricordarli uno ad uno.

Il pianista non è il top, ma bisogna accontentarsi.

Non si può avere tutto dalla vita...

mercoledì 26 agosto 2009

La Chiesa: un ponte tra Dio e l’uomo
















Una delle espressioni patristiche che meglio illustra la realtà del Cristianesimo è questa: “la grazia di Dio non distrugge la natura umana, ma la porta a compimento” (gratia non tollit naturam, sed perficit).

La fede cristiana, nel corso dei secoli e nei vari luoghi dove si è impiantata, ha accolto ciò che di più valido ha prodotto la cilvità con cui è venuta a contatto, dando ovunque vita a forme originali di cultura, senza rinunciare mai alle verità fondamentali del credo.

Ha preso la filosofia di Aristotele, cioè il meglio del pensiero umano, per illustrare per quanto è possibile con la ragione il mistero di Dio.

Ha valorizzato il patrimonio religioso dei cinesi, dando a Dio il nome Tien (il cielo), per portarli alla fede di Colui che abita i cieli.

Ha chiamato il successore di Pietro “Sommo pontefice” perché, se la religione è un ponte tra Dio e l’uomo, il capo della Chiesa è colui che in sommo grado tra gli uomini fa da guida in questa mirabile opera, e non certo l’imperatore romano.

Al tempo stesso ha usato il nome di Papa (babbo) e di “Servo dei servi di Dio” (servus servorum Dei), perché chi guida è a servizio di tutti, nello spirito dell'amore e della verità evangelica.

La Chiesa annuncia che Cristo, vero Dio, si è fatto vero uomo. E tutto ciò che Cristo ha assunto della natura umana è stato salvato. Per questo il cristiano apprezza nel profondo la realtà umana, creata e salvata da Dio.

A differenza degli eretici, che la realtà umana disprezzano in molti aspetti.

Diceva La Pira: “I veri materialisti sono i cristiani, che credono in un Dio fatto uomo”.

martedì 25 agosto 2009

Continua il caldo? ci rivuole Domenico Scarlatti!



Contro il caldo opprimente che non accenna a diminuire noi continuiamo ad ascoltare la fresca musica di Domenico Scarlatti.

Avvertiamo il signor “caldo afoso” che Scarlatti ha scritto 556 sonate.
La prima l’abbiamo postata giorni fa. Se non vuole sentirle tutte, sarà bene che “cambi aria”, e lasci il posto ad una bella pioggia ristoratrice.

Chi la dura la vince!

Intanto ascoltiamo la Sonata K 27, in Si minore.

Esegue Arturo Benedetti-Michelangeli, cioè la perfezione.

Homo viator, l'uomo è un viandante

















La morte di Fernanda Pivano e la sua vicenda umana e culturale ci hanno obbligato a rivisitare, come in un rewind, gli anni della beat generation, di cui lei è stata testimonial d’eccezione.

Ho scritto questi ultimi articoli con grande soddisfazione, perché quegli anni li ho vissuti in pienezza, e ne ho un ricordo indelebile.

Gli anni ’60 sono e rimangono, sotto tutti i punti di vista, degli anni memorabili e, a mio parere, bellissimi. Le degenerazioni successive sono altra cosa.

Sono gli anni della contestazione giovanile, quando di giovani ce n’erano tanti… Gli anni dell’immaginazione al potere, della primavera della Chiesa con il Concilio, della speranza di un mondo più giusto, delle grandi lotte operaie e sindacali…

Anni in cui il bisogno di stare insieme si manifestava in ogni aspetto della vita, dai numerosissimi complessi musicali, ai grandi raduni giovanili, dai gruppi parrocchiali agli “attivi” di partito.

Affettività, sessualità e ricerca di evasione, in un mondo così carico di energie vitali, cominciavano ad esprimersi in comportamenti sempre più liberi, fino a sfociare in atti e gesti trasgressivi e perfino autodistruttivi.

Se però dovessi trovare la “cifra” per interpretare quel mondo, io la indicherei proprio con il titolo del libro di Kerouac che lo ha preannunciato: On the road, sulla strada.

L’uomo è in cammino, è in viaggio, non può fermarsi al passato; vuole avere nuove esperienze, vuole conoscere nuove cose, vuole sperimentare, vuole aprirsi al futuro. Per questo l'andare, l'autostop, lo zaino, il sacco a pelo sono un po’ gli "status symbol" di quei giovani anni ’60.

Può sembrare incredibile, ma è la medesima cifra con cui i grandi teologi del Medioevo leggevano il mondo: Homo viator, l’uomo è un viandante. E il simbolo era il pellegrino, con un cappello a larghe falde, il tascapane, il bastone da viaggio, la borraccia dell'acqua.

È vero, l’homo viator del Medioevo andava a Santiago di Compostella, in Terra Santa, a S. Angelo del Gargano.

I giovani anni ’60 giravano per l’Europa con altre mete…

Ma lo spirito è lo stesso: l’uomo è fatto per l’infinito. Un piccolo spazio non lo potrà mai contenere.


lunedì 24 agosto 2009

Alle origini della beat generation. Apache




Le origini letterarie della beat generation sono nel libro On the road di Jack Kerouac del 1957, edito in Italia nel 1959 da Mondadori col titolo Sulla strada.

La prefazione era curata da Fernanda Pivano, che divulgò e rese celebre tra noi l’espressione “beat generation” di Kerouac.

Ma se si devono trovare le origini della musica beat, bisogna fare riferimento alla chitarra elettrica.

È in questo nuovo strumento, dalle enormi potenzialità espressive, che nascono i ritmi, le melodie e le “distorsioni” elettroniche delle nuove band, o per dirla all’italiana, dei nuovi complessi.

Il brano che fece capire quante possibilità permetteva la chitarra elettrica, sia nella parte solistica, che in quella ritmica e nel basso, è Apache, eseguito dal gruppo inglese The Shadows nel 1960.

Oggi può sembrare un brano quasi “elementare”. Quando lo sentimmo per la prima volta, ci sembrò di ascoltare una musica celeste e rivoluzionaria al tempo stesso. Suoni mai uditi prima, potentissimi, dolci o incisivi, vibrati o distorti, con dei bassi che facevano tremare i vetri delle finestre (e cominciavano a far innervosire i vicini di casa).

Era inizata la musica beat.

domenica 23 agosto 2009

Da Vasco ai Corvi, on the road...




Quanto la musica beat abbia influito sul panorama della musica attuale, non ci vuole un genio per capirlo.

Basta un po’ d’orecchio. E un po’ di anagrafe musicale.

I più famosi artisti di oggi sono nati tutti “musicalmente” alla fine degli anni ’60 e inizi anni ’70.

Michael Jackson, da ragazzetto, aveva formato un complesso beat con i suoi fratelli, i “Jackson Five”; in questi giorni è stato messo in circolazione il video.

Un’esplicita dichiarazione di amore per la musica beat è stata quella di Vasco Rossi, che nel megaconcerto del 1° Maggio di quest’anno a Roma ha cantato Un ragazzo di strada, e cioè la mitica canzone de I Corvi del 1966.

Quando il giornalista televisivo gli ha chiesto il perché di questa scelta, Vasco ha detto: “Fin da quando avevo 15 anni volevo cantarla”. E ha continuato, sorridendo, con una frase della canzone che ne costituisce un po’ il leitmotiv: “Io sono un poco di buono…”

Viva la sincerità, e viva una musica che non riesce a passare di moda!

Sempre per la verità, la hit dei Corvi era una cover di I ain't no miracle worker della band californiana The Brogues, del 1965.

Meglio la cover! 

sabato 22 agosto 2009

Dedicata a Fernanda Pivano. La casa del sole



Se c’è una canzone che esprime bene l’epoca beat, di cui Fernanda Pivano è stata impareggiabile testimonial nel mondo, è The house of the rising sun.

L’hanno messa nel loro repertorio tutti i cantanti e i gruppi dell’epoca.

È un song che ha una storia incredibile.

Molti pensano che sia di Bob Dylan, che l’aveva nel suo repertorio fin dagli inizi, nel 1961.

Ma era stato già inciso da Joan Baez nel 1960, la quale a sua volta non aveva fatto altro che riprendere un canto folk americano del XIX secolo, basato addirittura su una ballata inglese del 1600.

La versione più nota al gran pubblico era però quella del gruppo inglese The Animals del 1964, per chitarre elettriche, tastiera e percussioni.

In Italia la prima cover fu opera del gruppo Los Marcellos Ferial, con il testo di Mogol e Pallavicini, e il titolo La casa del sole, del 1965.

Ma sono stati I Bisonti, uno dei numerosi complessi beat dell’epoca, a darne tra noi la migliore interpretazione.

Il nome dei Bisonti è legato ormai a questa canzone, e noi la presentiamo nella loro versione.

Una canzone così complessa nella sua storia e così amata dalla beat generation credo sia una degna dedica alla memoria di Fernanda Pivano.

venerdì 21 agosto 2009

Una nota di freschezza; anzi, tante note...



In questa torrida estate, in questi giorni di afa soffocante, si sente il bisogno di una pioggia ristoratrice.

I condizionatori fanno quello che possono...

Aggiungiamo una nota di freschezza con la musica di Domenico Scarlatti; anzi, tante note fresche, anche se sono del 1738.

Nell’esecuzione della brava pianista slovena Irena Koblar ascoltiamo la Sonata K 1 in Re minore, la prima delle 556 Sonate del grande clavicembalista napoletano.


giovedì 20 agosto 2009

Fernanda Pivano: l'ultimo innamoramento











Ci sono notizie che riempiono di stupore, e ci fanno riflettere.

Fernanda Pivano, scrittrice, traduttrice, critica musicale e ambasciatrice mondiale della “beat generation”, morta due giorni fa a Milano all’età di 92 anni, aveva chiesto negli ultimi tempi a Dori Ghezzi di avere i funerali in Chiesa. “Ma solo se c’è don Andrea”, cioè don Andrea Gallo.

E il sacerdote genovese ha detto: “Sono commosso, come quando è morta mia mamma”. Poi con un mesto sorriso racconta: “Tre anni fa, eravamo a Monterosso, davanti a tutti i giornalisti e alle tv mi prese a braccetto come faceva sempre e annunciò: -Mi sono fidanzata con don Gallo, anzi sono anche già incinta”.
Simpatica e seria al tempo stesso, aveva maturato ormai la sua scelta.

Così i funerali si svolgeranno a Genova, nella Basilica di Carignano, come il suo Faber, domani alle 11 e saranno celebrati da don Andrea Gallo.

Solo Dio conosce il cuore delle persone.

Lei non ha ceduto (come ha confessato pubblicamente) alle dichiarazioni di amore di Pavese, di Hemingway, e di tanti altri famosi personaggi del mondo della cultura, della musica e dell’arte che hanno frequentato la sua ospitalissima casa milanese di Via Manzoni; fedele al caro marito, il celebre architetto e designer Ettore Sottsass, morto due anni fa circa.

Ma alla fine si è innamorata di Cristo, nel volto di un prete che per molti aspetti le somiglia.

mercoledì 19 agosto 2009

De André. Un romantico, malgrado tutto.




















Siamo soliti considerare Fabrizio De André come un cantautore ribelle, “contestatore”, spesso sarcastico e dissacratore.

Ma c’è nella sua produzione artistica anche tutto un filone “romantico”, sentimentale, che non è né meno bello, né meno importante del precedente.

Un romanticismo mai banale, sempre sorvegliato, in canti di amore che raramente conoscono il lieto fine.

Per me, ad esempio, il capolavoro di De André rimane La canzone di Marinella… Non per niente staziona stabilmente nel blog, in fondo alla pagina.

Nel 1969 usciva, in Nuvole barocche, il bel lento (slow) Per i tuoi larghi occhi.

http://youtu.be/ZAOcpc-8cIw

Mi hanno sempre colpito quei “larghi occhi chiari", dietro ai quali “batte un cuore di neve”.

Due bellissimi occhi, di ghiaccio.


martedì 18 agosto 2009

Arabesque, musica di notte



Sentire suonare un pianoforte di notte può ispirare la fantasia di Salvatore Di Giacomo (Pianefforte ‘e notte), ma in genere disturba il sonno dei vicini di casa.

Ma se si sentono scorrere le note della I Arabesque di Claude Debussy (1888), anche il più irrequieto condomino rimane conquistato e si lascia cullare dai ricami delle terzine di questo brano ammaliante.

Mentre scorrono le note, si possono leggere i versi non meno suggestivi della già ricordata poesia di Salvatore Di Giacomo, del medesimo periodo (1891). Nell’espressivo linguaggio napoletano.


Pianefforte 'e notte

Nu pianefforte ‘e notte
sona lontanamente
e ‘a musica se sente
pe ll’aria suspirà.

E’ ll’una: dorme ‘o vico
ncopp’a sta nonna nonna
‘e nu mutivo antico
‘e tanto tempo fa.

Dio, quanta stelle 'n cielo!
Che luna! E c’aria doce!
Quanto na bella voce
vurria sentì cantà!

Ma solitario e lento
more ‘o mutivo antico;
se fa cchiù cupo o vico
dint’a all’oscurità.

Ll’anema mia surtanto
rummane a sta funesta.
Aspetta ancora. E resta,
ncantannose, a penzà.

lunedì 17 agosto 2009

La Chiesa: cattolica, apostolica


Mi sto soffermando sulle caratteristiche fondamentali della Chiesa, così come risultano dalla volontà di Cristo espressa nei Vangeli, e ben riassunta in quattro aggettivi del simbolo di fede: una, santa, cattolica, apostolica.

Nel post precedente ho parlato delle prime due caratteristiche: una e santa.
Ora concludo con “cattolica e apostolica”.


3. Una Chiesa cattolica

“Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura” (Marco 16, 15).

“Non c’è più giudeo né greco, né schiavo né libero, né uomo né donna, ma tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Galati 3, 28).

La Chiesa ha la caratteristica dell’universalità e tende sempre ad aggregare, superando ogni barriera. L’individualismo non è la sua legge. Il razzismo e le discriminazioni sono superate in radice, perché ogni essere umano è fratello in Cristo, figlio di Dio.

Una “rivoluzione” pacifica, ma che ha trasformato l’autocoscienza dell’uomo.

Il termine “cattolico” esprime bene questa “universalità” geografica e sociale. Venne però inizialmente usato soprattutto per distinguere la Chiesa di Cristo, “totale” nella verità (katà òlon= secondo il tutto), dalle sette “ereticali” che invece prendevano del Cristianesimo ciò che piaceva a loro, e tralasciavano o negavano altri aspetti essenziali (eresia, da aireo=scelgo).

Un’eresia molto grave fu ad esempio lo gnosticismo, che riduceva l’insegnamento di Gesù a quello di un uomo sapiente, ma non di origine divina. Da questa eresia derivò poi l’arianesimo che negava la divinità di Cristo. Nel Concilio di Nicea del 325 si riaffermò invece ciò che nel Vangelo è detto fin dal primo rigo: “Inizio del Vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio” (Marco 1, 1).

La Chiesa ha difeso la completezza della verità, da ogni eresia, antica, medievale e moderna.

Non sempre lo ha fatto con metodi “cristiani”, specie nel Medioevo, e di questo ha chiesto perdono, anche se i metodi del tempo erano ovunque piuttosto sbrigativi.

Ma ha sempre difeso le verità della fede e della morale e per questo ha dovuto subire persecuzioni sanguinose in ogni epoca, dalle origini fino ad oggi.

Di queste persecuzioni i solerti accusatori laicisti non parlano mai; ma, per esempio, hanno fatto più vittime i tribunali del Terrore e i rivoluzionari francesi nei confronti dei dissidenti in tre anni, che l’Inquisizione in sei secoli di esistenza.

Non parliamo poi dei regimi totalitari atei del XX secolo…

4. Una Chiesa apostolica

“Gesù chiamò a sé i suoi discepoli e ne scelse dodici, ai quali diede il nome di apostoli” (Luca 6, 13). Seguono i dodici nomi, ben noti, il primo dei quali è Simon Pietro.

La scelta del numero dodici è certamente in riferimento alle dodici tribù del popolo d’Israele. Il Signore voleva così far capire che stava fondando su queste dodici persone il nuovo Israele, il nuovo popolo di Dio, cioè la Chiesa universale.

Gli apostoli sono anzitutto i testimoni della risurrezione di Gesù; a loro il Signore apparve per quaranta giorni dopo la sua risurrezione. Senza la risurrezione di Cristo, la fede cristiana sarebbe vana, perché fondata sull’uomo, e non sulla potenza di Dio.

“Pietro disse: Questo Gesù, Dio lo ha risuscitato e noi tutti ne siamo testimoni” (Atti 2, 32).

Gli apostoli sono i garanti della divinità di Cristo, e lo hanno testimoniato con il martirio (Gv 21, 18-19; Atti 12, 2).

Non erano persone particolarmente votate all’eroismo: Pietro rinnegò il Signore tre volte davanti a una domestica e gli altri fuggirono nel momento della prova. Non credettero inizialmente alla risurrezione, come testimonia l’episodio di Tommaso, che volle toccare con mano il Risorto. Ma alla fine, davanti a queste apparizioni impressionanti, furono trasformati e con la forza dello Spirito Santo testimoniarono senza più paura, prima davanti a tutto il popolo e poi davanti al carnefice.

“Allora Pietro, levatosi in piedi con gli altri Undici, parlò a voce alta così: Uomini di Giudea e voi tutti che vi trovate a Gerusalemme; vi sia ben noto questo e fate attenzione alle mie parole. Questi uomini non sono ubriachi come voi sospettate, essendo appena le nove del mattino.
Gesù di Nazaret - uomo accreditato da Dio presso di voi per mezzo di miracoli, prodigi e segni - voi l’avete inchiodato sulla croce per mano di empi e l’avete ucciso. Questo Gesù Dio l’ha risuscitato e noi tutti ne siamo testimoni. Sappia dunque con certezza tutta la casa d’Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso” (Atti 2, 14-36).

Non è più Simone che trema di paura davanti ad una servetta del sommo sacerdote; ora è Pietro che parla, la guida infallibile della Chiesa, la roccia di verità che testimonia ciò che ha visto: Gesù risorto, e dunque il Figlio di Dio, il Signore.

Senza la testimonianza degli apostoli e dei loro successori la Chiesa non può sostenersi, poiché mancherebbe delle colonne portanti. Il Signore ha affidato a loro il compito di insegnare e di guidare e li ha “inviati” (apostolos, da apostèllein=inviare) a tutti i popoli.

“Chi ascolta voi, ascolta me; chi disprezza voi, disprezza me; e chi disprezza me, disprezza colui che mi ha mandato” (Vangelo di Luca 10, 16)

Sono loro che hanno raccolto per scritto gli insegnamenti di Gesù nei libri del Nuovo Testamento, tra cui spiccano i quattro Vangeli.

Gli apostoli scelsero inoltre i loro successori, nelle chiese che via via fondavano; e questi successori furono chiamati “vescovi”, cioè sorveglianti, il cui compito era quello di continuare l'opera apostolica, custodendo il deposito della fede.

Così infatti si esprime Paolo, che aveva imposto le mani a Timoteo, facendolo vescovo:

“Non vergognarti della testimonianza da rendere al Signore nostro, né di me, che sono in carcere per lui; ma soffri anche tu insieme con me per il vangelo, aiutato dalla forza di Dio. Prendi come modello le sane parole che hai udito da me, con la fede e la carità che sono in Cristo Gesù.
Custodisci il buon deposito con l'aiuto dello Spirito Santo che abita in noi” (2 Tm 1, 6-14).


Una, santa, cattolica, apostolica. La Chiesa ha queste caratteristiche, senza le quali non si distinguerebbe da una benemerita associazione di volontariato, o da una delle tante Onlus del panorama attuale, con finalità benefiche.

La Chiesa è invece il Cristo vivente nella storia, l’arca della salvezza, senza la quale il mondo farebbe naufragio.


Foto in alto: "Incredulità di S. Tommaso", Caravaggio (1601), Bildergalerie, Potsdam

domenica 16 agosto 2009

La Chiesa: una, santa















Continuando la riflessione sulla Chiesa, mi soffermo ora sulle sue caratteristiche fondamentali, così come risultano dalla volontà di Cristo espressa nella Sacra Scrittura, e ben riassunta in quattro aggettivi del simbolo di fede: "una, santa, cattolica, apostolica".

In questo post analizzo le prime due caratteristiche. Nel prossimo, le altre due.


1. Un’unica Chiesa

Cristo ha fondato e voluto un’unica Chiesa, un’unica comunità di credenti: "Si farà un solo ovile e un solo pastore" (Gv 10, 16). "Non prego solo per questi [apostoli] ma anche per quelli che per la loro parola crederanno in me; perché tutti siano una sola cosa. Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch'essi in noi una cosa sola” (Gv 17, 20-21)

La pluralità dei popoli e delle razze si unisce sotto l’azione dello Spirito Santo per formare l’unico popolo dei figli di Dio. Questa è la Chiesa voluta da Cristo e che ha il suo esordio mirabile nella Pentecoste (Atti 2, 1).

Proprio per garantire questa unità, Gesù ha messo a capo della chiesa una guida infallibile che è il papa. “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa, e le porte degli inferi non prevarranno” (Mt 16,18).

Non può esistere una chiesa unica, se il principio che la ispira è quello del cristianesimo “fai-da-te” e dell’individualismo, tipici delle confessioni protestanti, che infatti sono diventate ormai centinaia, in disaccordo tra di loro su punti fondamentali della fede e della morale.
Il contrario esatto di quello che ha detto Gesù: “un solo ovile e un solo pastore”.

2. Una Chiesa santa

“A immagine del Santo [Gesù Cristo] che vi ha chiamati, diventate santi anche voi in tutta la vostra condotta; poiché sta scritto: Siate santi, perché io sono santo” (1 Pt 1, 16). “Gesù disse: Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”( Mt 28, 20).

Cristo è presente nella Chiesa in modo reale. È Lui che battezza, attraverso il gesto del suo ministro; è Lui che si fa presente nelle specie consacrate del pane e del vino, e assolve i peccati, per mezzo del sacerdote; è Lui che unisce in matrimonio gli sposi, con il libero e responsabile sì dei nubendi.

La Chiesa è santa non per la santità dei ministri, ma per la santità di Cristo che opera attraverso di loro, e anche nonostante loro. Diceva S. Agostino: “Pietro battezza, è Cristo che battezza; Giuda battezza, è Cristo che battezza”.

Cristo è presente nei segni sacramentali, nella sua parola e nella comunità stessa. “Dove due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro” (Matteo 18, 20).

Dice Paolo: “Noi abbiamo questo tesoro in vasi di creta, perché appaia che questa potenza straordinaria viene da Dio e non da noi” (2 Corinzi 4, 7).

Ecco la Chiesa “santa”; santa nel tesoro che porta, Cristo. Un tesoro che poi dovrebbe trasformare, e trasforma, anche i vasi di creta in strumenti preziosi.

La santità di Cristo crea i santi
; per cui la Chiesa è detta anche “Madre dei santi”. E nella storia umana i santi sono la manifestazione più evidente della radice santa che opera nella Chiesa, cioè Cristo Signore.

“Mi sono convertito perché nella Chiesa cattolica c’è la remissione dei peccati”, diceva D. Lorenzo Milani.

È questo in effetti l’aspetto più affascinante della Chiesa. Siamo peccatori, ma in noi agisce Cristo che ci dà la forza di diventare santi.

Coloro che rinfacciano alla Chiesa solo le mancanze, senza vedere i grandi meriti e le grandi figure della santità, anche di quella quotidiana, non hanno capito nulla della Chiesa: è il solito perbenismo farisaico, contro cui proprio Cristo ha combattutto con parole durissime.

Cristo ha scelto dei peccatori, per farne dei santi; è venuto per la pecora smarrita, per riportarla all’ovile.

Dice causticamente l’irlandese Oscar Wilde: “La Chiesa cattolica è soltanto per i santi e per i peccatori. Per le persone rispettabili va benissimo quella anglicana”.



Foto in alto: "Maestà" (1311), Duccio di Buoninsegna, Museo dell'Opera del Duomo, Siena

venerdì 14 agosto 2009

Cristo e la Chiesa (1)




I numerosi post riguardanti la religione cristiana che circolano nei social networks ci fanno capire due cose:

- il problema religioso è molto più sentito di quello che si voglia far credere; proprio come dice Heinrich Böll: “gli atei parlano sempre di Dio”;

- chi parla di cristianesimo, spesso non conosce quasi nulla dell’argomento. "Conoscano almeno qual è la religione che combattono, prima di combatterla", diceva Pascal a proposito dei liberi pensatori del suo tempo.
Mi pare che non siano cambiati.

Voglio perciò puntualizzare, in qualche post, alcuni aspetti essenziali della fede cristiana, senza la conoscenza dei quali discutere mi sembra una perdita di tempo.

È vero che chi le spara più grosse in genere attira più attenzione; ma a me non interessano gli imbonitori e le telepromozioni; a me interessano solo i fatti, quelli sui quali si fonda la fede cristiana.
Le chiacchiere mi annoiano.

Il primo aspetto da chiarire è il rapporto che lega Gesù Cristo e la Chiesa.

Si sente infatti dire: la Chiesa cattolica non ha niente (o ha poco) a che fare con Cristo; oppure, Cristo mi interessa, la Chiesa no; o ancora, l’insegnamento di Cristo non è quello della Chiesa; e così via.

Chi fa queste affermazioni non sa evidentemente che la figura di Cristo e il suo insegnamento ci sono noti solo attraverso la Chiesa, cioè la comunità dei credenti guidata dagli apostoli con a capo Pietro.

Gesù Cristo non ha lasciato un libro; non ha lasciato nulla di scritto. Ha lasciato invece dodici persone che sono state testimoni della sua predicazione, della sua morte e della sua risurrezione. Dodici persone, gli apostoli, ai quali ha dato l’incarico di predicare, di battezzare, di rimettere i peccati, di celebrare l’Eucarestia, e di radunare un popolo che da un confine all’altro della terra riconosca di essere la comunità dei figli di Dio (chiesa=comunità).

I Vangeli, che i denigratori della Chiesa di cui abbiamo parlato contrappongono proprio alla Chiesa, sono stati scritti dagli apostoli o discepoli di apostoli, e senza neppure un comando da parte di Gesù. Se non avessero scritto nulla, il messaggio di Cristo sarebbe giunto lo stesso fino a noi nello stesso modo, attraverso la predicazione della Chiesa.

Se abbiamo i Vangeli lo dobbiamo proprio alla Chiesa, quella guidata da Pietro, cioè dal papa di Roma. E la Chiesa ha vigilato fin dall’inizio che i Vangeli fossero solo quelli autentici, non quelli apocrifi, perché il messaggio di Gesù fosse salvaguardato nella sua pienezza.

L’espressione "Chiesa cattolica" viene ormai compresa come "Chiesa universale". Ma la giusta traduzione è "Chiesa che ha la verità completa" (katà òlon=secondo la totalità), e questa espressione nacque proprio nei confronti delle chiese eretiche, che sceglievano solo alcuni aspetti dell’insegnamento di Cristo, negandone altri ("eretico" da airèo=scelgo).

Quindi, se abbiamo il Vangelo lo dobbiamo alla Chiesa cattolica, che ce lo ha trasmesso nella sua integrità, salvandolo dalle manomissioni degli eretici.
Questo aspetto viene completamente "dimenticato", ad esempio, dai protestanti, ai quali bisogna invece ricordare che senza Chiesa cattolica, niente Vangelo, niente Nuovo Testamento.

L’insegnamento di Cristo è quello che trasmette la Chiesa cattolica, quando parla di fede e di morale.

Ecco alcune delle moltissime ed esplicite espressioni di Gesù rivolte agli apostoli e alla Chiesa da loro guidata:

"Gesù disse agli apostoli: Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e insegnate a tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo" (Vangelo di Matteo 28, 18-20).

“Chi ascolta voi, ascolta me; chi disprezza voi, disprezza me; e chi disprezza me, disprezza colui che mi ha mandato” (Vangelo di Luca 10, 16)

“Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi. Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi” (Vangelo di Giovanni 20, 21-23).

“Questo è il mio corpo, che è dato per voi. Fate questo in memoria di me” (Vangelo di Luca 22, 23; I Corinzi 11, 24).

“Tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia Chiesa, e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli; tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli; tutto ciò che scioglierai sula terra sarà sciolto anche nei cieli” (Vangelo di Matteo, 16, 18-19).

“Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando però verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera” (Vangelo di Giovanni 16, 12-13). La venuta dello Spirito Santo è nel giorno della Pentecoste (Atti, 2, 1-4).

Quindi, non solo la Chiesa insegna la verità insegnata da Gesù Cristo, Figlio di Dio, ma ha l’autorità di sviscerarla in pienezza, senza essere un’impersonale ripetitrice di parole.

Come prima clamorosa dimostrazione di questo fu l’abolizione della circoncisione, nel Concilio degli Apostoli a Gerusalemme: "Abbiamo deciso, lo Spirito Santo e noi…" (Atti 15, 28).
Gesù e gli Apostoli erano tutti circoncisi. Ma quel giorno, nell’anno 50, a Gerusalemme la Chiesa abolì la circoncisione, perché non considerata più una parte essenziale della fede cristiana; con Cristo era iniziata la nuova alleanza, segno della quale è il Battesimo.

Cristo e la Chiesa formano un’unica realtà, un corpo vivo di cui Cristo è il capo, come dice S. Paolo (Lettera ai Colossesi 1, 18); e secondo l’espressione di S. Agostino, il Cristo totale (“Christus totus”).

Separare Cristo dalla Chiesa, staccarlo dalle sue membra che vivono nella storia, significa decapitarlo, dopo che qualcun altro lo ha messo in croce.

Qualcuno ci prova…


mercoledì 12 agosto 2009

Er Superenalotto 2 (pasquinata)




Se vinco sti mijoni ormai ho ggiurato
de dalli tutti pe’ bbeneficenza;
vado a cercar er primo disgraziato
e te lo faccio diventa’ eccellenza.

Ma, er primo disgraziato sono io,
che campa co’ na misera pensione;
ppoi ce son li parenti, caro mio,
che se vinco saranno ‘na legione.

E se rimane ancor quarche bajocco
vado a l’incroci e cerco i lavavetri,
ma so’ ttornati tutti nel Marocco:
co’ le rotonde i tempi sono tetri.

Lungo la via ce son altre straniere,
so’ ppoveracce, vengon da lontano;
nun son manco vestite, so’ lliggere,
e se vincessi je darei ‘na mano.

Oh! non pensate a fatti d’indecenza!
Me fermerei, per fa’ bbeneficenza.

El Superenalotto (pasquinata toscana)




El Superenalotto

Anche stisera al Superenalotto
‘unn ha vinto nissuni, e ‘un me par vero.
Avo giocato i numeri a strambotto;
‘unn è uscito manc’uno, ho fatto zero.

I guadrini son tanti, e benvinuti,
ma anche i giocatori son milioni;
quand’usciran que’ numeri fottuti,
chi vince ce dirà: grazie, coglioni!

lunedì 10 agosto 2009

E le stelle stanno a guardare...



















Nella notte di S. Lorenzo mi pare bello ricordare alcune celebri frasi che hanno come protagoniste le stelle:

1. Non si può che iniziare con X Agosto di Giovanni Pascoli:

“San Lorenzo, io lo so perché tanto
di stelle per l’aria tranquilla
arde e cade..."


2. Le più famose sono forse quelle dantesche:

“E quindi uscimmo a riveder le stelle”, a conclusione dell’Inferno.

“L’amor che move il sole e l’altre stelle”, alla fine del Paradiso.

Meno nota, ma non meno bella, quella che conclude il Purgatorio:

“Puro e disposto a salire alle stelle”.

Ogni cantica (Inferno, Purgatorio, Paradiso) finisce proprio con la parola “stelle”.

E anche Dante descrive il fenomeno delle stelle filanti, nel XV canto del Paradiso, in una stupenda similitudine:

"Quali per li seren tranquilli e puri
discorre ad ora ad or subito foco,
movendo li occhi che stavan sicuri

e pare stella che tramuti loco" (XV, 13-16).

È l'anima di Cacciaguida, che luminosa e rapidissima si avvicina a Dante staccandosi da un gruppo di beati; come nelle notti serene si vede passare velocemente nel cielo di tanto in tanto un improvviso oggetto infuocato (discorre ad ora ad or subito foco), attirando lo sguardo anche di chi pensa ad altro (movendo li occhi che stavan sicuri), e sembra una stella che cambi di posizione.


3. Molto significativa la conclusione della Critica della Ragion Pratica di Kant:

"Due cose riempiono l'animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me".

4. Ne I Promessi Sposi del Manzoni, le stelle hanno a che fare con la morte di Don Ferrante. Questi non credeva nell’esistenza della peste, che imperversava a Milano, e quando la contrasse non sapendo il perché

“morì prendendosela con le stelle, come un eroe del Metastasio”.

5. È diventato quasi un proverbio il titolo del romanzo di A. J. Cronin:

"E le stelle stanno a guardare".


6. La conclusione spetta di diritto al Leopardi, che con le stelle ci dialogava:

"Vaghe stelle dell'Orsa, io non credea
tornare ancor per uso a contemplarvi
sul paterno giardino scintillanti,
e ragionar con voi dalle finestre
di questo albergo ove abitai fanciullo,
e delle gioie mie vidi la fine".
(Le Ricordanze)

Buona notte con Polvere di stelle...

http://www.youtube.com/watch?v=jKp1DwOUC3Q

Elogio di Aristotele






Al termine della esposizione del pensiero aristotelico, mi pare giusto raccogliere in un unico articolo gli aspetti essenziali del suo insegnamento.

1. “La conoscenza nasce dalla meraviglia”.
L’uomo parte così alla scoperta della realtà che lo circonda, fino a raggiungere i fondamenti dell’essere e il suo principio, l’Essere trascendente, Dio, atto puro, motore immobile, amore che tutto muove.

“L’amor che move il sole e l’altre stelle” è il verso che conclude la Divina Commedia di Dante, ed è il concetto aristotelico-tomista di Dio.

L’Essere trascendente è necessario per spiegare il divenire della realtà, che è il fenomeno più evidente del mondo in cui siamo immersi. Un fenomeno che va spiegato, perché la mente umana non si ferma finché non trova una spiegazione plausibile.

Il grido di Aristotele: “anànke stènai” (bisogna fermarsi), di fronte alla causa prima, è dettato da questa esigenza di razionalità. Infatti il programma che il filosofo si è dato è quello di “salvare ciò che appare” (sòzein tà fainòmena), cioè spiegare ciò di cui si ha esperienza. E spiegare significa trovare le cause.

Raffaello, nella sua celebre Scuola di Atene, nelle Stanze Vaticane, ha raffigurato Aristotele che discute con Platone al centro della “filosofica famiglia” antica. La mano destra di Aristotele è rivolta verso il basso, proprio per ricordare che per la ricerca della verità bisogna partire sempre dall’esperienza. “Niente è nell’intelletto, ciò che prima non è stato nei sensi”.

2. Nel procedere verso la verità l’uomo si muove con sicurezza perché fornito di uno strumento, la logica, che è infallibile se usato correttamente; infatti è fondato su di un primo principio che si impone per la sua evidenza: il principio di non contraddizione. Non possono coesistere due diverse verità su di un unico aspetto del reale; poiché l’essere è uno, la verità è unica.

"Non è lecito affermare che qualcosa sia e non sia nello stesso modo ed allo stesso tempo”.

La mente umana procede perciò con fiducia nelle sue ricerche, sapendo che i suoi ragionamenti, se ben condotti, colpiscono la realtà “come le frecce dell’arciere il bersaglio”.

3. Ma c’è un motivo di fondo per cui l’uomo ricerca, indaga e agisce. “Tutto ciò che agisce, agisce per un fine”.
E qual è lo scopo per cui l’uomo agisce? L’uomo, come tutti gli altri esseri viventi, agisce per raggiungere la felicità.

Ci sono molti modi di intendere la felicità.
“Gli uomini della massa, i più rozzi, l’identificano con il piacere, e per questo amano la vita di godimento. Questi uomini si rivelano veri e propri schiavi, scegliendo una vita da bestie”.

Se l’uomo vuole raggiungere la vera felicità, la piena soddisfazione, deve dare valore primario a ciò che è proprio della natura umana e che la distingue dagli altri esseri viventi, cioè la razionalità.

L’amore verso la sapienza, la riflessione su Dio, la ricerca disinteressata della verità nel sapere: queste sono le virtù che realizzano il fine ultimo dell’uomo e quindi gli danno felicità piena.

“Perciò, non bisogna dar retta a coloro che consigliano all’uomo, poiché è uomo e mortale, di limitarsi a pensare a cose umane e mortali; anzi, al contrario, per quanto è possibile, bisogna comportarsi da immortali e far di tutto per vivere secondo la parte più nobile che è in noi”.

Le altre azioni che l’uomo compie come appartenente al genere animale, e che danno piacere e sapore alla vita quotidiana, sono subordinate alla ricerca del bene supremo, che non deve essere mai perso di vista.

Ed anche nella vita quotidiana gli istinti dell’uomo devono essere guidati dalla ragione, poiché è un animale “razionale”. La ragione perciò, nella soddisfazione dei bisogni e delle pulsioni primarie, porterà il suo senso della misura e della regola.

Il “giusto mezzo” è ciò che la ragione indica come azione virtuosa, mentre i vizi sono sempre costituiti da eccessi. Una vita regolata dalle virtù è una vita eticamente condotta, e l’apprendimento delle virtù va iniziato fin dall’età infantile.
L’uomo è un essere educabile, e per questo va guidato all’acquisizione di habitus positivi (le virtù) fin dall’infanzia.

L’etica non è il manuale delle buone maniere, ma la ricerca del fine per cui vale la pena di vivere da esseri umani.

Per questo dobbiamo essere grati ad Aristotele che ci ha fornito gli strumenti teoretici e pratici per condurre una vita degna di essere vissuta.

Egli è colui che più di ogni altro nella storia del pensiero umano ha dato strumenti indispensabili per la ricerca della verità.

Chiunque voglia ridurre il pensiero a relativismo, scetticismo, nichilismo o - in senso contrario – ad arbitrio assoluto e delirio di onnipotenza, deve fare i conti e confrontarsi con la lucida analisi di Aristotele, il “maestro di color che sanno”, come lo definisce Dante, cioè il maestro dei maestri.


domenica 9 agosto 2009

Etica: agire da uomini. Aristotele (6)




"Tutto ciò che agisce, agisce per un fine. Ma vi è un fine che vogliamo per sé stesso, mentre tutti gli altri sono voluti in funzione di quello. Il fine ultimo perciò è il bene supremo, a cui sono dirette tutte le nostre azioni".

Con questo splendido inizio si apre la ricerca di Aristotele sull’agire umano, ricerca che lui denonima per la prima volta "etica", con l'opera intitolata "Etica a Nicomaco", in dieci libri, dedicata al figlio Nicomaco.

Qual è dunque il fine ultimo, a cui l’agire umano tende naturalmente? Tutti riconoscono che l’uomo cerca come bene massimo la felicità.

Ma le opinioni divergono quando si tratta di stabilire che cos’è la felicità.

“Infatti alcuni pensano che sia qualcosa di visibile e appariscente, come il piacere, la ricchezza, l’onore; altri, altra cosa. Anzi spesso è il medesimo uomo che l’intende in vari modi: quando è ammalato, infatti, l’intende come salute, come ricchezza quando si trova povero” (I, 5).

Per stabilire qual è il fine ultimo dell’uomo, verso il quale dirigere le azioni, bisogna capire qual è la natura propria dell’uomo, e cioè in che cosa si distingue dagli altri esseri. Perché la felicità consiste nel realizzare ciò che di proprio ha la natura umana.
Infatti l’uomo non si sentirebbe realizzato, se non soddisfacesse ciò che di più tipico è nella sua natura.

“Gli uomini della massa, i più rozzi, l’identificano con il piacere, e per questo amano la vita di godimento. Questi uomini si rivelano veri e propri schiavi, scegliendo una vita da bestie” (I, 5).

Il bene supremo deve essere tipico solo dell’uomo. E la natura umana non è solo animalità, ma anche e particolarmente razionalità; l’uomo è animale razionale.
Non basta soddisfare le pulsioni istintive, che sono proprie degli animali; bisogna vivere secondo ragione, dare spazio e compimento ai valori razionali e contemplativi, che costituiscono, secondo la mirabile affermazione di Aristotele, “la cosa più divina che è in noi” (X, 7). Dio è pensiero del pensiero, e l'uomo quando medita e riflette sulle verità assolute è simile a Dio.

“Perciò, non bisogna dar retta a coloro che consigliano all’uomo, poiché è uomo e mortale, di limitarsi a pensare a cose umane e mortali; anzi, al contrario, per quanto è possibile, bisogna comportarsi da immortali e far di tutto per vivere secondo la parte più nobile che è in noi” (X, 7).

Sono sempre rimasto impressionato da questa conclusione dell’etica aristotelica. Con il semplice uso delle capacità umane, esercitate in maniera libera da ogni condizionamento, il Filosofo scrive una pagina che potrebbe essere inserita nei libri sapienziali della Sacra Scrittura.

La felicità dell’uomo consiste dunque nell’esercizio delle capacità razionali e contemplative (virtù dianoetiche). L’uomo sapiente e saggio è anche il più felice, “e il più caro alla divinità”.

Ma l’uomo è anche “animale”, e quindi ha bisogni e pulsioni da soddisfare. Non sarebbe possibile la felicità senza tener conto anche di questo aspetto.
Tuttavia l’uomo non può dimenticare di essere animale “razionale”. Quindi anche i suoi istinti passano al vaglio della ragione e vengono da essa regolati e guidati. Un atto umano non è perciò mai paragonabile a quello dell’animale, perché ha sempre una valenza morale.

Aristotele chiama virtù etiche queste guide regolatrici degli istinti dell’uomo.

Le virtù etiche sono degli habitus, delle “abitudini” acquisite. Esse determinano “il giusto mezzo” tra due eccessi opposti; per cui la virtù del coraggio è il giusto mezzo tra la viltà e la temerarietà, la temperanza è il giusto mezzo tra gli usi sregolati dei piaceri, e così via.

“L’eccesso e il difetto sono propri del vizio, mentre la medietà è propria della virtù” (II, 5).

Il famoso “giusto mezzo” (aurea mediocritas) non è una scoperta di Epicuro, ma di Aristotele.

Un posto particolare tra le virtù etiche lo occupa la giustizia, alla quale Aristotele dedica l’intero V libro. “La giustizia è la più importante delle virtù, né la stella della sera, né quella del mattino sono altrettante degne di ammirazione. Nella giustizia è compresa ogni virtù”. Questa virtù regola principalmente la vita associata, la "politica"; e per Aristotele l'uomo è fondamentalmente un "essere politico".

La giustizia è “distributiva” quando dà a ciascuno ciò che gli spetta in proporzione dei meriti (unicuique suum); ed è “correttiva” quando ristabilisce un diritto violato.

Poiché l’agire umano consiste nell’esercitare le virtù, etiche e dianoetiche, per Aristotele è fondamentale l'acquisizione degli habitus positivi fin da piccoli , e in questo consiste l’educazione dell’uomo. Da una parte il genitore, l’educatore (l’essere in atto), dall’altra il ragazzo, l’educando (l’essere in potenza), che apprende imitando, facendo, ripetendo, ragionando.

“È inutile lanciare un sasso in aria infinite volte: non imparerà mai a volare” (II, 1).

L’uomo invece è un essere educabile, e non si può trascurare l’insegnamento degli habitus morali, che sono una parte fondamentale della vita dell’uomo adulto.

“Non è piccola la differenza tra l’essere abituati subito, fin da piccoli, in un modo piuttosto che in un altro; al contrario, c’è una differenza grandissima; anzi, è tutto” (II, 1). Un'affermazione che, nella sua voluta esagerazione, ci fa capire quanto Aristotele dia importanza all'apprendimento di comportamenti corretti in età infantile.

Non si può tralasciare infine il discorso dell’amicizia. Non c’è felicità senza gli altri.

“È assurdo fare dell’uomo felice un solitario: nessuno infatti sceglierebbe di possedere tutti i beni a costo di goderne da solo: l’uomo infatti è un essere socievole e portato per natura a vivere insieme con gli altri” (IX, 9).

Ma c’è un caso in cui anche l’amicizia deve cedere il passo ad un valore superiore: la verità.

“Bisogna lasciar perdere i sentimenti personali; infatti pur essendo cari entrambi, è sacro dovere onorare di più la verità” (I, 6).

Qui Aristotele critica l’amico e antico maestro Platone, per la dottrina delle idee.

Questo passo dell’etica è stato poi codificato nel detto: “Amicus Plato, sed magis amica veritas”.

È Aristotele che parla: “Amico è Platone, ma più amica è la verità”.

È una frase che non mi rimane nuova…

Si noti che Raffaello, nel celebre affresco della Scuola di Atene (1509), rappresenta Aristotele che tiene in mano proprio il libro dell'Etica (foto in alto).

Anche lui era rimasto colpito da quest'opera "divina".

sabato 8 agosto 2009

Logica, scienza del retto ragionamento. Aristotele (5)





“La logica è nata perfetta con Aristotele e non ha avuto bisogno di modifiche”. Così ha scritto Kant, il fondatore del criticismo, nel XVIII secolo.

In effetti c’è poco da modificare in un sistema razionale così coerente, che lascia stupefatti ancor oggi. Vediamo gli aspetti essenziali.

La logica cerca i primi principi del retto ragionamento.

Aristotele cerca anzitutto il punto di partenza assolutamente vero dal quale si possa iniziare qualsiasi ragionamento, e lo individua nel principio di non contraddizione.

E cioè: "Non è lecito affermare che qualcosa sia e non sia nello stesso modo ed allo stesso tempo”.
Per fare un solo esempio: una persona non può essere colpevole e innocente rispetto alla medesima accusa.

Talvolta ci si può anche astenere dal formulare un giudizio certo, per mancanza di prove; oppure, non si riesce a raggiungere la verità a causa di conoscenze inadeguate (come è ad esempio nel probabilismo quantistico). Ma sappiamo con certezza assoluta che la verità sopra ogni singolo aspetto del reale è unica, perché l’aspetto da considerare è unico.

Il probabilismo non è nella realtà in sé, ma nella nostra attuale incapacità di misurare o comprendere perfettamente alcuni fenomeni. L'incertezza non è nei fatti, dal momento che accadono in un certo modo, ma nelle nostre scarse conoscenze.
Diceva Leibniz, il fondatore del calcolo integrale (insieme a Newton): “Noi non sappiamo il perché di tanti fenomeni, perché non ne conosciamo la ragion sufficiente (la causa). Ciò sarebbe possibile se la nostra mente fosse quella di Dio”.

Tutta la logica della nostra mente, e perfino del nostro computer, si basa sul principio di non contraddizione.

Dal principio di non contraddizione deriva immediatamente il principio del terzo escluso.
E cioè: Se un’affermazione è vera, il suo contrario è falso; non si dà un terzo caso (tertium non datur). Per fare un solo esempio, Dio o esiste o non esiste; non c’è una terza ipotesi.

Date queste premesse vere, è possibile formulare dei giudizi, cioè affermare o negare qualcosa con verità.
Per essere più precisi e aristotelici, il giudizio è riferire un predicato ad un soggetto.
Per esempio: il cane abbaia, Berlusconi è uno statista, l’asino vola … sono tutti giudizi, uno dei quali almeno certamente falso.

Il quadrato delle opposizioni (vedi disegno in alto) ci dice quali giudizi sono contraddittori. Per avere una reale contraddizione, un giudizio universale affermativo si deve opporre ad un giudizio particolare negativo. La frase “Tutti gli uomini sono bianchi” (A, Universale Affermativa, falsa) non ha come contraddittoria “Nessun uomo è bianco”, come verrebbe subito da pensare (E, Universale Negativa, falsa anch’essa), ma “Qualche uomo non è bianco” (O, Particolare Negativa, vera). La contraddizione deve essere completa per avere la verità (universale-particolare; affermativa-negativa).
A= Adfirmo, E= NEgo, I= AdfIrmo (particolare), NegO (particolare)

Una concatenazione di giudizi forma il ragionamento.
Esistono varie concatenazioni di giudizi: il tipico ragionamento con due giudizi è il dilemma, e i due giudizi sono collegati per contrasto: Aut... Aut (o... o): o la borsa o la vita; o mangiar questa minestra o saltar dalla finestra; e ancor più celebre il dilemma di Amleto: to be or not to be, essere o non essere. Per questo diciamo amletica una persona che non si decide a scegliere. Il dilemma, come si suol dire, ha due corni e bisogna sceglierne uno.

Ma il ragionamento per eccellenza è il sillogismo, composto da tre giudizi: la premessa maggiore, la premessa minore, la conclusione.
Esempio classico: Tutti gli uomini sono mortali (premessa maggiore); io sono un uomo (premessa minore); io sono mortale (conclusione… tragica).

Da premesse vere, ragionando correttamente, si giunge a conclusioni sempre vere.
Da premesse sbagliate, ragionando correttamente, si giunge a conclusioni sempre sbagliate.

Occhio alla partenza, dunque!

Specialmente in questi giorni di ferie…

venerdì 7 agosto 2009

Dio, atto puro. Aristotele (4)


















Nell’indagine razionale della realtà, Aristotele distingue anzitutto ciò che è sostanziale da cio che è accidentale.

L’aspetto sostanziale accomuna un essere ai suoi simili, le caratteristiche accidentali lo distinguono singolarmente. Lo abbiamo già visto nel post precedente.

Sembra un’analisi di poca importanza; in realtà supera di colpo il pensiero sofistico e relativistico. Se esiste un’idea comune a fondamento di ogni categoria di esseri, non ci si può fermare solo agli aspetti accidentali e mutevoli, che non modificano la struttura ontologica (cioè l'essere sostanziale).

L’uomo, ad esempio, muta nel tempo e nello spazio, ma la sua essenza non cambia; la struttura ontologica di uomo è ciò che sostiene ogni cambiamento. Infatti si dice l’uomo è piccolo, l’uomo è grande, l’uomo è vecchio, etc. Ciò che muta non è il “sostantivo” (uomo), ma gli "aggettivi".

Aristotele continua il suo studio della realtà, questa volta nel suo aspetto dinamico, nel suo divenire.

L’osservazione ci dice che tutte le cose cambiano, si trasformano, “divengono”.
È ora il divenire il fenomeno da spiegare.

Che cos’è il divenire? È il cambiamento di un essere. Tutto scorre (“panta rei”), aveva detto Eraclito. No, tutto è, aveva affermato Parmenide; nella natura niente può cambiare, poiché tutto è essere.

Evidentemente avevano esagerato entrambi: è vero che tutto è (Parmenide), ma è anche vero che l’essere cambia (Eraclito).

Aristotele riesce a spiegare il fenomeno del divenire con la scoperta di due altri principi primi della realtà: l’atto e la potenza (=possibilità).
L’atto è l’essere già realizzato, la potenza è l’essere che “può” realizzarsi.

Un uomo analfabeta in atto non sa leggere, in potenza è un letterato. Una pentola di acqua fredda in atto, in potenza è calda; e così via.

Il divenire perciò viene definito da Aristotele come il passaggio dalla potenza all’atto.

Ma per avere questo passaggio occore un essere già in atto.

L’analfabeta non imparerà a leggere senza che qualcuno gli insegni (essere in atto: un maestro, un libro); l’acqua fredda non può diventare calda, senza qualcosa che sia già caldo (il fuoco)...

Tutto ciò che si muove è perciò mosso da altro. Perché ci sia divenire, occore un essere già in atto.
Naturalmente, questo essere in atto può a sua volta essere stato mosso da un altro essere.

Ma non si può andare all’infinito, in questa catena di motori mossi da altri. Bisogna fermarsi (“anànke stènai”).
Non perché non si possa andare all’infinito numerico, ma perché anche tutto l’infinito numerico non avrebbe in sé la ragione del movimento e lo esige da un altro essere che non sia mosso da altri. Senza un primo essere non mosso da altri, non ci può essere inizio del movimento.

Occorre un Motore immobile, un Atto puro, che non sia stato cioè a sua volta una potenza di un altro essere precedente.

Occorre un Essere che sia sostanzialmente diverso dagli esseri in divenire, i quali sono tutti “atti impuri”, cioè motori che sono stati mossi da altri, e quindi misti di potenza, cioè imperfetti, perché un tempo non realizzati.

L’Atto puro, che Aristotele chiama senz’altro Dio (“o theòs”) è l’essere perfetto, in sé realizzato, non commisto con la potenza, con l’imperfezione, con il divenire. Un Motore immobile, che può muovere tutta la catena degli esseri, essendo egli diverso da tutti gli altri.

Il Libro XII della Metafisica, in pratica l’ultimo (gli altri due sono studi sui numeri) propone questa analisi impressionante sulla necessità di ammettere l’esistenza di Dio, intelligenza ordinatrice (“nous”), come era stata definita da Anassagora, Socrate e Platone.

Ma ora Aristotele ne dà una prova stringente, rigorosamente razionale. Se vogliamo “salvare le apparenze” (“sòzein tà phainòmena”), cioè il divenire del mondo, che è la cosa più evidente di tutte, bisogna ammettere un Atto puro, un Motore immobile all’inizio del movimento, sia che il movimento venga pensato all’infinito (come in realtà pensa Aristotele), sia che venga considerato finito. Non è il numero che conta, ma il tipo di essere che lo inizia.

L’Atto puro, cioè Dio, è l’essere perfetto, del tutto diverso dagli altri, unico e trascendente.

Possiamo allora concludere la metafisica di Aristotele con un'altra affermazione fondamentale, che ora apparirà chiara: “l’essere si dice in molti modi” (“tò òn lèghetai pollakòs”).

Si dice prima di tutto come Atto puro, essere perfetto; poi si dice come atto misto a potenza, cioè essere imperfetto (un essere che muove e viene mosso); infine si dice come pura potenza, cioè come semplice possibilità, che potrebbe non realizzarsi mai, se non ci sono le condizioni.

Tutta questa scala appartiene alla categoria dell’essere: Dio è, l’uomo è, la possibilità è.

Ma ognuno di questi esseri non è identico agli altri; però si rassomiglia, è cioè “analogo”.
Si va dall’Essere perfettamente realizzato alla pura possibilità, che però non è il semplice nulla, poiché può divenire qualcosa, mentre il nulla non ha senso.

Per questo possiamo usare per tutti il verbo essere.

Con pochi ritocchi, il più grande discepolo di Aristotele, Tommaso d’Aquino, inserirà questa splendida pagina di metafisica nella concezione cristiana di Dio.

Per un ateo invece sarà un problema sottrarsi alle domande poste da Aristotele, e alle sue risposte di ragione.

mercoledì 5 agosto 2009

La metafisica. Aristotele (3)




Il filosofo ricerca le cause prime della realtà.

Fedele a questa affermazione Aristotele si pone anzitutto il problema dell’essere.

L’essere viene studiato sotto diversi aspetti. Ad esempio, la medicina studia l’essere in quanto ammalato o sano; e ogni altra disciplina o arte si interessa all’essere nel proprio settore specifico.

Il filosofo studia l’essere nei suoi supremi modi di esistere. Studia l’essere in quanto essere.

Questo studio è stato chiamato metafisica; non da Aristotele però (lui lo chiamò “filosofia prima”), ma dai suoi commentatori ed è rimasto un termine definitivo.
È l’essere “oltre la fisica” (metà tà physikà), è l’essere nei suoi primi principi.

E quali sono questi principi primi dell’essere?

I primi due che individua sono la “sostanza” e gli “accidenti”.

Aristotele osserva che ogni essere ha caratteristiche comuni con i suoi simili, e caratteristiche individuali che lo distinguono da ogni altro. Socrate, ad esempio, è uomo come Platone, ma come individuo è diverso da lui e da qualunque altro essere.

Ogni essere deve perciò anzitutto avere un principio che lo rende uguale ad altri esseri.

Questo principio è la sostanza. In Socrate, ad esempio, la sostanza è la sua humanitas, l’essere uomo, animale ragionevole, che lo rende in tutto identico a Platone e a qualunque altro uomo.
Sostanza non vuol dire il materiale con cui un essere è fatto, ma il principio primo che lo determina nel suo essere, che sostiene il tutto (sub-stantia, che sta sotto all’essere visibile), ciò che fa sì che un essere sia quello che è (un uomo è un uomo e non un cavallo); è un’idea universale, incarnata con delle caratteristiche individuali.

Le caratteristiche individuali in cui un’idea universale si è concretizzata sono denominate da Aristotele accidenti. Gli accidenti sono fattori casuali, che potrebbero essere anche in altro modo senza modificare la sostanza; sono caratteristiche “accidentali”, appunto, come piccolo, grande, bianco, nero, sano, malato…

Nell’indagine aristotelica, che tiene conto dei modi in cui queste caratteristiche si presentano nel nostro linguaggio, gli accidenti sono individuati in numero di nove, e sono questi: qualità (ad es. buono, cattivo, sano), quantità (grosso, piccolo), tempo (ieri, oggi), luogo (qui, là), modo di essere in un luogo (seduto, alzato), azione (uccidere), passione (cioè subire un’azione, essere ucciso), relazione (a destra, a sinistra), habitus (cioè abitudine: buono come modo abituale, cattivo, come modo abituale).

Ogni essere perciò ha un principio fondamentale che lo costituisce nella sua essenza, e delle caratteristiche particolari che lo distinguono dai suoi simili.

Si noti la grandezza di questa conclusione. L’uomo è sempre uomo, cattivo o buono che sia, bello o brutto, di destra, di centro o di sinistra…

L’idea di uomo non è mai annullata dai suoi accidenti, anche se questi fossero tutti negativi.

martedì 4 agosto 2009

Cos'è la filosofia. Aristotele (2)






















Ogni uomo desidera di conoscere. La conoscenza deriva dalla meraviglia.

Con questa geniale osservazione inizia la Metafisica di Aristotele.


“Ogni uomo per natura desidera di conoscere.
Gli uomini, da sempre, hanno preso dalla meraviglia lo spunto per filosofare, poiché da principio essi si stupivano dei fenomeni che erano a portata di mano e di cui essi non sapevano rendersi conto, e in un secondo momento, a poco a poco, procedendo in questo stesso modo, si trovarono di fronte a maggiori difficoltà, quali le affezioni della luna e del sole e delle stelle e l’origine dell’universo” (Metafisica, 1).


Ma cosa significa conoscere? Ci sono vari gradi di conoscenza.

C’è una conoscenza che si limita alla constatazione dei fatti, alla semplice osservazione di un fenomeno.

C’è poi una conoscenza che va oltre, e cerca le cause di un fenomeno. Questa è la scienza, che si può definire appunto “conoscenza per cause”.

Esiste infine una conoscenza che non si limita a investigare le cause di un fenomeno, ma va alla ricerca delle ragioni ultime, delle cause prime.

E questa è la filosofia, che Aristotele definisce “scienza delle cause prime”.

Una persona è un vero filosofo perciò quando non si ferma alle cause intermedie, ma va alla ricerca dei primi principi, nell’essere, nel pensare, nell’agire.

Un compito gigantesco, quello che si accinge a svolgere Aristotele. La ricerca delle cause prime.

Ora che siamo diventati filosofi, seguiamolo passo a passo.




lunedì 3 agosto 2009

Invito alla filosofia. Aristotele








Aristotele è il grande e geniale sistematore del sapere dell’epoca classica.

Era stato il maestro di Alessandro Magno e morì un anno dopo di lui, nel 322 avanti Cristo.

Non c’è aspetto del pensiero umano su cui non abbia lasciato la sua impronta indelebile.

I suoi testi più importanti, scritti per gli alunni della sua scuola ad Atene (Liceo), trattano di logica, fisica, metafisica, etica, politica, poetica, scienze naturali.

Ma ne scrisse altri per un pubblico più vasto, in cui usa un linguaggio più semplice, adatto alla divulgazione.

Nell’opera intitolata “Esortazione” (Protrepticon), egli fa l’elogio della filosofia e invita ognuno a diventare filosofo con questo ragionamento stringente:


“Bisogna studiare la filosofia.

Anche coloro che dicono che la filosofia non serve a nulla, lo devono dimostrare.

Ma per dimostrarlo, devono studiare la filosofia”.


Aristotele, un grande, anche nel semplice “biglietto d’invito” alla sua scuola.

Vedremo nei prossimi post alcuni punti fondamentali del suo pensiero.

Importante è iniziare.

domenica 2 agosto 2009

Quando sono triste



Quando sono triste non posso fare a meno di ascoltare della musica.

L’approvazione della pillola abortiva Ru486 da parte dell’Agenzia Italiana del Farmaco (farmaco?), ha creato in me profonda amarezza.

La vita umana viene eliminata con due pastiglie...

Il mio insegnante di musica mi diceva: “Quando mi sento un po’ giù, suono questo preludio di Bach” e si metteva a suonare il Preludio XXII, in Si bemolle minore, del I volume del Clavicembalo ben temperato.

La morte lo ha portato via in età fiorente. Mi sembra ancora di vederlo, mentre suonava questo stupendo brano, e mi faceva notare come il lento e quasi disperato procedere della composizione, con armonie e contrappunti perfetti, si tramuti alla fine in un canto di speranza e in un messaggio di liberazione.

Non eseguiva invece la fuga, che appare nel video, e che è di grande valore; non paragonabile comunque alla “perfezione fidiaca” (come scrive Alfredo Casella) del preludio.

Tra il preludio (2' 56) e la fuga la pianista fa ovviamente una pausa di silenzio.

Dedico il Preludio a chi è triste, perché queste note di Bach aiutino a ritrovare la serenità.