martedì 28 febbraio 2017

Martedì Grasso. Musica e coriandoli...





L'ultimo giorno di Carnevale non può essere passato sotto silenzio.
Anzi! Occorre una bella musica che soddisfi l'orecchio e rassereni lo spirito. Ne abbiamo bisogno.

Poi verrà il Mercoledì delle Ceneri, a ricordarci la nostra condizione umana. 

Oggi invece, Martedì Grasso, è il momento della gioia spensierata, per quanto si può e nonostante il tempo inclemente, almeno qui nella Tuscia Annonaria (a Viareggio i carri allegorici non hanno sfilato per il forte vento).

E allora affidiamoci alla musica barocca francese, e a uno dei suoi maggiori esponenti: Jean-Philippe Rameau (1683-1764). 

La fastosità e la brillantezza del barocco francese si riassumono bene in questo “selvaggio” Rondò, o meglio, “Rondeau delle Indie Galanti” (1735).

Rameau, oltre che grande musicista, è stato anche il teorizzatore dell’armonia nel senso vero e proprio del termine, avendo scritto nel 1722 il primo trattato di questa disciplina: “Traité de l’harmonie”.

Prima di lui l’armonia era più un intuito del musicista che una scienza “esatta”. Più un’arte che una disciplina.

Con Rameau l’armonia diventa una vera e propria “scienza”, cioè una riflessione su ciò che l’orecchio sente come “naturale”, espressa in regole rigorose, che ancor oggi vengono studiate nel “corso di armonia” nei Conservatori.

Naturalmente si sono anche moltiplicati i manuali di studio.
Quello di Rameau è stato il primo. Perfino Bach ha dovuto studiarlo, benché controvoglia...

Il duetto, inframezzato dal coro, è un elogio della semplicità e della pace delle "selvagge" Indie (di America), contro i falsi miti della civiltà europea. 

Straordinariamente efficaci l’interpretazione del soprano Magali Léger, del baritono Laurent Naouri, de Les Musiciens du Louvres e la direzione di Marc Minkowski.

Buon Martedì Grasso, con questa musica festosa! I coriandoli metteteli voi...





Omaggio a dj Fabo (Jethro Tull)





Qualunque sia il giudizio sulla morte di Fabiano Antoniani, conosciuto come dj Fabo, mi pare doveroso ricordarlo con un omaggio musicale.

Era un affermato dj, non poteva vivere senza la musica (lo aveva anche tatuato nel braccio), ma un drammatico incidente nell’estate del 2014 aveva stroncato ogni suo sogno, oltre che il suo fisico.
Ieri, a 40 anni appena compiuti, ci ha voluti lasciare.

Lo voglio onorare con un brano dei Jethro Tull. La band inglese, che dj Fabo conosceva certamente, è stata una delle prime a unire il rock alla musica classica, dando vita a  quello che venne chiamato “rock progressivo”  (prog rock).
Dj Fabo amava il rock e le sue infinite varianti. Mi pare opportuno però aggiungere un tocco di musica classica in questa circostanza; per questo ho pensato al prog rock dei Jethro Tull.

Posto perciò il loro brano più celebre, la “Bourrée”, dall’album Stand Up del 1969.  È una rivisitazione della Bourrée di J. S. Bach tratta dalla I Suite per liuto (BWV 996).

Egregia l’esecuzione al flauto di Ian Anderson, che ci fece conoscere allora questo gioiello musicale di Bach. Una dedica a dj Fabo, che spero apprezzerà.






domenica 26 febbraio 2017

Per Carnevale, una musica... bestiale!





Mi pare opportuno in quest’ultima domenica di Carnevale (mercoledì prossimo sono le Ceneri) divertirsi un po’ con la musica polifonica del geniale bolognese Adriano Banchieri (1568-1634).

Si tratta del madrigale carnascialesco a cinque voci “Contraponto bestiale a la mente” (1608), nel quale, come ci informa la Capricciata introduttiva a tre voci, si ode

"un cane, un gatto, un cucco e un chiù per spasso
far contraponto a mente sopra un basso”.

In altre parole, mentre il basso canta la sua parte, quattro voci che imitano il verso degli animali suddetti fanno per divertimento ("per spasso") una polifonia (“un contraponto”) improvvisata (“a mente”).

In realtà non c'è nulla di improvvisato, la partitura è tutta scritta.
I soprani primi fanno la terza discendente Mi-Do del cucco (cuculo); i soprani secondi fanno il verso del chiù, con le note Sol e La; i contralti il gatto, con una parte più elaborata; i tenori il cane, con un Do ripetuto.
Il basso fa la base al contrappunto, cantando queste parole in latino maccheronico e scherzoso, come è tutto il brano: “Nulla fides gobbis, similiter est zoppis, si sguerzus bonus est, super annalia scribe”, cioè: Nessuna fiducia nei gobbi, ugualmente è per gli zoppi, se un guercio è bravo, scrivilo sugli annali”.
L’inizio del madrigale (con ripetizione alla fine) è di carattere accordale, in tempo ternario.



Buona Domenica e Buon Carnevale!





Capricciata e Contraponto bestiale a la mente


Or s'ode una spassevol barzelletta
di certi cervellini usciti in fretta

Nobili spettatori,
udrete or ora
quattro belli humori:
un cane, un gatto,
un cucco, un chiù, per spasso
far contraponto a mente
sopra un basso.


Un cane, un gatto, un cucco, un chiù per spasso
far contraponto a mente sopra un basso.

Fa la la…

Nulla fides gobbis
similiter est zoppis.
Si squerzus bonus est,
super annalia scribe.
Bau, bau! 
Miao, miao!
Chiù, chiù! 
Cucù, cucù!

Fa la la…





giovedì 23 febbraio 2017

L'Unione Sovietica? È qui! (in versi)


















Ho trovato a OKnotizie
un ambiente di nequizie;
son rimasto attonito.

Rotto il muro di Berlino,
convertitosi il Cremlino,
sono qua i sovietici.

Han nel cuor lo stalinismo,
nel cervello il fanatismo
e il lavaggio ateo.

Hanno aperto la prigione
a chi ha una religione,
specie se cattolica.

Ed invece ai musulmani
qua si battono le mani;
perché quelli ménano.

Per fanatico furore
spicca il gran moderatore,
Entropia. Si moderi!

Segue a ruota Alicarnasso,
un ruttino ad ogni passo,
ha pien d’aer lo stomaco.

Anzi, è bolla di sapone;
lui vuol dar qua e là lezione,
ma è ignorante emerito.

Fanno insieme bella coppia:
posta l’un, l’altro raddoppia,
ed insiem si applaudono.

Dicon che chi è miscredente,
più degli altri è intelligente.
Loro lo dimostrano.

Sono entrato in questo ambiente
per discuter civilmente;
mi han mandato al diavolo.

Ed io che son educato
i bolscevici ho lasciato
nell’union sovietica.





lunedì 20 febbraio 2017

Una graditissima sorpresa musicale (Händel)





L'amica Annamaria, nel suo pregevole blog "Gioire in Musica" (https://annaclassica.blogspot.it/) ha postato il secondo movimento, Andante larghetto e staccato (Basso ostinato), del Concerto in Sol minore per organo e orchestra, op. 7 n. 5 (HWV 310) di G. F.  Händel, del 1750. 
Un brano, e relativo post di commento, che consiglio vivamente di non perdere, perché si tratta di una pagina molto bella.

Mentre ascoltavo l'esecuzione organistica della partitura da parte di Karl Richter, mi è improvvisamente tornato alla mente un fatto legato ai miei trascorsi musicali.
Ho avuto la fortuna di essere stato  allievo di Fosco Corti, uno dei più bravi direttori di coro della II metà del secolo scorso, e valente organista. 
Spesse volte alla fine dei suoi concerti eseguiva all'organo un "Allegro"in Sol minore di  Händel, dal primo volume del Liber Organi di Sandro Dalla Libera. Una musica brillante e festosa, davanti alla quale rimanevo estasiato, e che anch'io nel mio piccolo poi ho imparato a eseguire.
In fondo al brano il curatore annota così: "È il finale del Concerto in sol min. scritto in tempo di Gavotta".

Molte volte ho cercato in YouTube questa originaria "Gavotta" di  Händel, senza mai trovarla, o meglio, trovando solo la Gavotta in Sol maggiore.
Il post di Annamaria, che ha riportato il II movimento del V Concerto in Sol minore, mi ha fatto scattare una molla: "Stai a vedere che la Gavotta che cercavo è il movimento finale di questo Concerto!"
Sono andato così ad ascoltare in YouTube il  finale di quel concerto, e cosa ti trovo nell'ultimo movimento? L'Allegro che cercavo da tanto tempo, che mi entusiasmava quando Fosco Corti si metteva alla tastiera e lo eseguiva splendidamente, dal suo Liber Organi che poi mi ha lasciato, e che conservo come una reliquia.

Ma le sorprese non sono finite. Quest'ultimo movimento non è altro che una rielaborazione  dell' Allegro finale (Gavotta) del III Concerto in Sol minore, op. 4 di   Händel (HWV 291), del 1735. In effetti il brano da me ascoltato in gioventù era proprio questo del 3° Concerto.

Ora finalmente sono soddisfatto. Mi sarebbe dispiaciuto lasciare in sospeso un filo pendente della mia curiosità e del mio passato.

Grazie, carissima Annamaria, per aver sollecitato i miei neuroni e avermi fatto ritrovare il tempo perduto!

Poiché è proprio l'Allegro finale del 3° Concerto in Sol minore per organo e orchestra quello che più si avvicina alla trascrizione di Sandro Dalla Libera, preferisco postare questo brano, anziché quello successivo del 1750.
E ne ho trovato uno (in formato MIDI) che riproduce esattamente la parte organistica. 
Non è il massimo della perfezione. Ma è sufficiente per avere un'idea dello splendore e della genialità del brano.

Chi vuole ascoltare l'originale (e sarebbe auspicabile!) può cercare il finale dei due concerti ricordati, e magari mettere a confronto le due versioni. 

Buon ascolto!




domenica 19 febbraio 2017

Dialogo surreale tra due amici, nel IV secolo a. C.




Socrate, Platone e Aristotele, tra il V e il IV secolo avanti Cristo, erano pervenuti ad affermare l'esistenza di Dio e dell'immortalità dell'anima, in base ad argomenti di ragione.
Questo "dialogo" utilizza solo quei concetti, di cui poi il Cristianesimo si servirà (con qualche importante modifica) nell'annuncio della fede.

A sinistra l'immagine di Platone (disegnata da Raffaello); a destra un busto di Epicuro. 



Il dialogo si svolge ad Atene agli inizi del IV secolo a. C. 
tra un amico di Platone e un uomo di Alicarnasso




- Ehilà, uomo di Alicarnasso!

- Ciao, amico di Platone!

- Qual buon vento ti porta qui ad Atene?

- No, nessun vento. Le mie gambe, piuttosto.

- Sempre di buon umore, eh? Lo so che ti piace scherzare...

- Sono discepolo di Epicuro e di Lucrezio, mi piace la concretezza; sono realista.

- Epicuro e Lucrezio? E chi sono? Non li ho mai sentiti dire.

- Verranno dopo di te, stanne certo. Noi sosteniamo che tutto è fatto di particelle piccolissime, indivisibili. E quando siamo morti, queste se ne vanno a caso per l’aria, a formare altri corpi.

- Quindi tu, come Democrito, il mondo a caso poni?

- Certo! Perché, c’è qualche altra spiegazione?

- Per esempio, Aristotele non dice così; e mi pare abbia argomentato con più verosimiglianza.

- Aristotele! Chi era costui?

- Ne sentirai parlare. Verrà dopo di noi. Egli sostiene che il mondo è ordinato secondo regole e leggi, sia fisiche che morali. Nulla è a caso. È inutile lanciare un sasso mille volte per aria; non imparerà mai a volare. E anche tu, uomo di Alicarnasso, ti comporti secondo principi di saggezza e regole morali; non sei certo uno che si pavoneggia scioccamente o che strepita e si agita nel teatro della vita, dicendo cose che non significano nulla. O no?

- Certo che no! I miei discorsi sono sensati, e il mio comportamento è irreprensibile, secondo la logica e l'etica epicurea: niente di troppo, il piacere consiste nell’equilibrio tra estremi. Il giusto mezzo, insomma.

- Appunto, come dice pure Aristotele. L’uomo è un animale ragionevole. E con un’anima che trascende il suo corpo.

- Qui non ti seguo, caro amico di Platone. L’anima è mortale. Io sono uno di quelli che l’anima col corpo morta fanno.

- Trovo la tua affermazione un po’ contraddittoria. Se dici di seguire regole morali, se hai idee che ritieni giuste, se affermi delle verità universali, dovrai ammettere che provengono da qualcosa che non è solo un casuale aggregato di particelle. Ci deve essere in noi un principio che trascende la parte materiale, e che le dà ordine, moralità e verità. Un principio che supera la pura materia; un’anima immateriale e immortale insomma, che è l’origine della verità e della moralità in ciascuno di noi, come ha insegnato il mio maestro Socrate.

- Caro amico di Platone, io credo solo a ciò che vedo! e quest’anima non si è mai vista. Tu l’hai forse vista? L’hai misurata, calcolata, pesata? Ha un colore, un sapore, un odore, una forma?

- E tu puoi vedere i tuoi pensieri, odorare i tuoi sentimenti, le tue passioni, le tue idee? Le hai pesate, misurate, spezzate, come saranno spezzate quelle particelle che tu chiami indivisibili?

- Quelle particelle non potranno mai essere spezzate; non per nulla le chiamiamo atomi!

- Li spezzeranno, li spezzeranno… Perché la materia è quantità, occupa spazio, perciò è per sé stessa divisibile. Le idee invece non occupano spazio e superano ogni ostacolo materiale. Sono immortali, sono di un’altra consistenza, sono una realtà spirituale, divina.

- Sogni, i tuoi sono solo sogni! Mi sembri come quel poeta che ha detto che la vita ha la consistenza dei sogni. La realtà invece è concreta, ed è quella che possiamo vedere e toccare con mano. Il resto è silenzio.

- Non esserne così certo. C’è chi ha detto che le cose più concrete sono proprio le idee. Senza idee l’uomo sarebbe ancora all’età della pietra; anzi, non sarebbe neppure uomo, distinto dall’animale. E se c’è stato progresso, questo si deve proprio alla capacità dell’uomo di formulare concetti, ipotesi, idee; sogni, come tu dici, che però si sono rivelati quanto di più concreto si possa immaginare.

- Ammetto che le idee siano importanti; ma perché devono provenire da un’anima dentro di noi?

- E da quale principio dovrebbero provenire? Solo da organi materiali, limitati nel tempo e nello spazio? Sarebbe una contraddizione in terminis. Se ho pensieri immortali, in me ci deve essere un principio immortale. Dammi retta, uomo di Alicarnasso. Se l’uomo viene ridotto solo a ciò che mangia, viene umiliato nella sua dignità più grande.  Non sarebbe diverso dagli altri animali; anzi, mi parrebbe il più misero di tutti, perché, mentre gli altri ignorano la loro sorte, noi sappiamo con certezza che cosa ci riserva il futuro: una condanna a morte.

- Ma io, da buon epicureo, non aspetto la morte; semplicemente la ignoro: quando ci sono io non c'è lei, e quando c'è lei non ci sono io.

- Ma i segni del tempo ti obbligano a pensarci ogni tanto, amico mio. Anzi, come dirà Seneca, ogni giorno moriamo, perché non è l’ultima goccia che fa vuotare la clessidra, ma tutta l’acqua che è scorsa prima. Perfino l'imperatore Federico II di Svevia, verso il quale mostrerai profonda ammirazione, proprio lui,  dopo una vita non certo esemplare, al momento della morte volle indossare l'abito da monaco e morire con quello.

- Non vorrai farmi diventare un uomo spirituale, uno che va in Chiesa e dai preti per paura della morte e dell’aldilà!

- La Chiesa, i preti? Che significa? Chi sono?

- Lo saprai, lo saprai. Avrai a che farci tutti i giorni, per secoli e secoli. E se non stai attento, ti faranno bere la cicuta, come al tuo maestro Socrate. Anzi, ti metteranno sopra una catasta di legna e ti daranno fuoco.

- Ah! Proprio una brutta fine. Ma a te, che sei un epicureo, non ti hanno ancora messo al rogo?

- Ancora no. Per questo me ne sto alla larga…

- Ma attento a non allontanarti troppo, perché invece che arrosto, potresti finire allo spiedo, come il prode Anselmo.

- Per questo anch'io porto le braghe di ferro.

- Se poi guardi ancora più avanti, potresti ritrovarti in un regime peggiore di quello dei Trenta Tiranni, che il valoroso Trasibulo ha rovesciato qualche anno fa, come ben ricorderai.

- Non ci sarà più spazio per regimi tirannici, in un futuro di epicurei e scettici. È la religione la causa di ogni male, come scriverà in versi mirabili il mio caro Lucrezio.

- Veramente Lucrezio parlava della religione pagana, quella che faceva sacrifici umani agli dei; non immaginava di certo cosa sarebbe successo quando l'uomo si fosse sostituito a Dio nel governare la terra: il sacrificio di Ifigenia si sarebbe moltiplicato per milioni di volte! Tu invece questi orrori li vedrai con i tuoi occhi, uomo di Alicarnasso, e non so come potrai giustificarli.

- Non mi vorrai attribuire qualche colpa...

- Ma quando mai! Tu sei un uomo pacifico, e le tue guerre sono solo verbali. Non ami la Chiesa, questo è vero, ma non manderesti (forse) alla ghigliottina nessuno.

-Neanche tu, amico di Platone, sei un uomo di guerra. Le tue battaglie sono soprattutto contro gli errori di grammatica (che il tuo futuro discepolo Agostino considererà più gravi di un peccato mortale) e contro qualche miscredente, che non metteresti (forse) al rogo, ma magari alla berlina.

-Ti saluto, uomo di Alicarnasso!

- Salute a te, amico di Platone!




PS. Absit iniuria verbis. 

giovedì 16 febbraio 2017

Racconto surreale: lo studente e il commissario (di fantasia)






Gli esami di maturità sono sempre stati (in passato) per gli alunni un vero spauracchio, da esorcizzare con un intenso anno di studio.
Per i commissari, tranne che per quello interno, la cosa era ben diversa: si trattava di un mese (circa) un po’ faticoso, ma compensato da un discreto rimborso economico e da una “allegra brigata", se si riusciva a trovare il giusto feeling.
Quell’anno mi trovai a far da commissario di filosofia e storia (c’era chi portava storia come terza materia) in un liceo classico di Firenze, uno dei più prestigiosi. Non era la prima volta che venivo nominato commissario a Firenze. Da Arezzo mi veniva bene. Beneficiavo della trasferta e la sera (volendo) potevo tornare a casa.
Con gli altri commissari mi trovai subito a mio agio. La commissaria interna ogni mattina ci faceva arrivare la colazione in ben forniti vassoi: “La guardi che vengono da Paszkowski!” Non mi facevo pregare per abbuffarmi, con quelle belle paste e con quei panini al prosciutto…  
Tutto sembrava andare nel migliore dei modi. I primi problemi sorsero ovviamente alla correzione dei temi d’italiano. La commissaria (che non era toscana e non proveniva da un liceo) si scontrò varie volte con la commissaria interna, fiorentina: “La guardi che qui siamo a Ffirenze, e l’italiano l'abbiamo inventato noi!” In effetti anch’io ebbi l’impressione che l'amica d’italiano avesse una preparazione alquanto modesta.
Agli orali l’impressione divenne certezza.
È cosa normale che nell’interrogazione il candidato si presenti con l’antologia, sulla quale il commissario indica poi un testo da far leggere e commentare.
È altresì cosa nota che gli esami di maturità sono pubblici e quindi può assistere chiunque. Spesso il candidato non vuole “testimoni”; ma in quel liceo la platea in fondo all’aula d’interrogazione era sempre piena: genitori, compagni, amici…
La modesta preparazione della commissaria si manifestò chiaramente dal fatto che a coloro che portavano la sua materia faceva quasi sempre le stesse domande: Le riviste fiorentine del primo ‘900, “Il gelsomino notturno” del Pascoli, “Il Cinque Maggio” del Manzoni, e poco più.
Il momento topico si ebbe quando ad un candidato la commissaria domandò di commentare il Coro del Terzo Atto dell’Adelchi. Il giovane, invece di aprire l’antologia e di leggere il brano, cominciò a recitare a mente:
“S’ode a destra uno squillo di tromba;/a sinistra risponde uno squillo:/d'ambo i lati calpesto rimbomba/da cavalli e da fanti il terren…”.
La commissaria non dava segni di vita, e rimaneva a guardare lo studente, meravigliata di quel suo andare spedito a memoria, mentre vedevo che la platea in fondo alla stanza dava segni di agitazione: chi guardava in faccia l'altro meravigliato, chi dava gomitate nei fianchi, chi sorrideva con le mani davanti alla bocca…
Per l’appunto ero proprio collocato accanto all’amica commissaria, e mentre il giovane Pico della Mirandola continuava  a sciorinare i versi manzoniani, io mi rivolsi a lui e gli dissi: “Guarda, che ti ha chiesto il Coro dell’Adelchi, non quello del Conte di Carmagnola”.
La platea si ricompose all’istante, il candidato chiese scusa, la commissaria sorrise, e subito il giovane iniziò la recita giusta: “Dagli atri muscosi, dai Fori cadenti…”.
Dicono oggi che imparare a memoria sia uno spreco di tempo e una pratica pressoché inutile. 
Platone diceva invece che “conoscere significa ricordare”. Lo diceva in maniera radicale, ma noi possiamo prenderlo anche come un monito didattico.
In quella torrida estate fiorentina, in un’aula di liceo, un po’ di memoria ci salvò dal ridicolo. E si poté continuare a mangiare con gusto le colazioni di Paszkowski.
L’amica commissaria mi invitò a passare la serata con lei; ma io le dissi che avevo un impegno ad Arezzo, e declinai l’invito.
Declinai. Forse avremmo parlato di declinazioni…
  



martedì 14 febbraio 2017

Buon S. Valentino! (Col canto di Nadir)





Un po’ di musica nella festa degli innamorati ci vuole. Se no, che festa è, eh?

Ho pensato così a una delle più belle romanze del patrimonio lirico: lo struggente canto di Nadir, “Je crois entendre encore”, tratto dall’opera “I pescatori di perle” (1863), di Georges Bizet.

Nadir si sta innamorando di Leila e gli sorge spontanea dal cuore questa affascinante melodia.

È conosciuta anche nella libera traduzione italiana: “Mi par d’udire ancora”.

Propongo la romanza di Nadir nella stupenda performance di Placido Domingo, il quale esegue il canto in una tonalità più alta dell’originale, giungendo nell’acuto fino al re bemolle sopra il rigo.

Un vero regalo per tutte le ascoltatrici (e gli ascoltatori). Non è da tutti superare il do.

Buon S. Valentino!





Je crois entendre encore



Je crois entendre encore, caché sous les palmiers,
sa voix tendre et sonore comme un chant de ramiers.
Ô nuit enchanteresse ! Divin ravissement !
Ô souvenir charmant ! Folle ivresse ! Doux rêve !

Aux clartés des étoiles, je crois encore la voir
entr'ouvrir ses longs voiles aux vents tièdes du soir.
Ô nuit enchanteresse, divin ravissement,
Ô souvenir charmant ! Folle ivresse ! Doux rêve !
Charmant souvenir ! Charmant souvenir !



Mi sembra di sentire ancora, nascosta sotto le palme,
la sua tenera e musicale voce, come un canto di colombe selvatiche.
Oh notte incantevole, divino rapimento,
oh incantevole ricordo! folle ebbrezza! dolce sogno!

Alla luce delle stelle, mi sembra di vederla ancora
socchiudere i suoi lunghi veli ai tiepidi venti della sera.
Oh notte incantevole! divino rapimento!
Oh incantevole ricordo! folle ebbrezza! dolce sogno!
Incantevole ricordo! incantevole ricordo!


lunedì 13 febbraio 2017

Un invito a Oknotizie (in rima)












Naviganti della rete,
ben trovati dove siete!
Io vi mando questa posta
perché qui facciate sosta.

Questo luogo è un po’ nascosto,
ma son certo ch’è un bel posto;
qua gli utenti non son molti,
ma son belli, buoni e colti.

Siete in cerca di amicizie?
Le trovate a OKnotizie.
Vi descrivo un poco il sito,
giudicate se è gradito.

Anzitutto chi amministra:
son di destra e di sinistra;
puoi postare a dritta e a manca,
vai tranquillo, hai carta bianca.

C’è qualcuno miscredente
che non crede proprio a niente;
qualcun altro è un po’ più pio
e ti parla del buon Dio.

Ecco, lì c’è Alicarnasso,
vuol sembrare un satanasso;
ma se smette coi sofismi,
va a finir nei catechismi.

Con un tono più gentile,
e con misurato stile,
Terry posta i suoi commenti
pien di fede e sentimenti.

Ma poi giunge anche Entropia,
che di Dio perse la via.
Il suo nome è femminile,
ma si tratta di un maschile.

La Boldrini non lo sa:
questo nick finisce in a.
Se ci son oknotiziari
che la informan, ca@@i amari!

A cavallo, frusta in mano,
giunge Mstatus friulano.
Lo conosco da un bel pezzo,
è il sovrano di Tolmezzo.

Quando un dì mi scrisse: “Mandi!”
io pensavo a dei rimandi;
non sapevo, me toscan,
ch’è il saluto dei furlan!

Ora è gran moderatore,
e sta sveglio a tutte l’ore;
se ogni tanto c’è del chiasso,
sta frenando Alicarnasso.

Con la luce un po’ soffusa,
un po’ soft, un po’ diffusa,
Loveadvisor (più 18)
posta un post un po’ galeotto.

Smilefriend è il più karmato,
il più esperto e il più dotato;
lui del mondo della rete
sa le vie le più segrete.

Vedo Danger che ha postato,
con saggezza ha commentato.
Così già l'ho conosciuta,
e la stima si è accresciuta.

Scienza e tecnica ti cale?
Qui abbiam SpazioVitale!
E se hai altre pretese,
c’è NetMassimo in inglese.

Ami invece dissertare?
Moreh_Zedeq vai a cercare.
Se discuter non ti scoccia,
vai in un post scritto da Boccia.

Ed infine va applaudito
chi ha creato questo sito.
È Antirez, lo sappiamo
e le mani gli battiamo.

Altri utenti ho tralasciato,
e ne sono addolorato.
Ma il sito ha appena un mese,
le misure non le ho prese.

Ho composto la canzone
per tirare l’attenzione
e invogliare qualche utente
a venir tra questa gente.

Più noi stiamo in compagnia,
più si trova l’allegria.
Siamo già nel Carnevale,
non prendetevela a male;

PlatoAmicus dice: Vale!







venerdì 10 febbraio 2017

Nel Giorno del Ricordo: Tartini-Ughi





Fino a qualche anno fa nei dizionari della lingua italiana la voce “foiba” aveva più o meno questa asettica dicitura: “Tipo di dolina costituita da un avvallamento imbutiforme sul fondo del quale si trova comunemente un inghiottitoio”. “Dolina: depressione di forma arrotondata frequente nei terreni calcarei e dovuta al fenomeno carsico” (Zingarelli, 1996).
Solo dal 2006 lo Zingarelli, alla voce ‘foiba’ associa anche gli “eccidi e rappresaglie ad opera dei partigiani comunisti jugoslavi nell’ultima fase della seconda guerra mondiale e subito dopo”.

Oggi qualsiasi dizionario, anche il più ottuso e scalcinato, non può fare a meno di ricordare, insieme al “fenomeno carsico”, gli eccidi di italiani (friulani, giuliani, istriani, dalmati) ad opera dei partigiani comunisti (non solo jugoslavi, però), perpetrati come pulizia etnica e politica.

Insomma, dopo che furono ammazzate e seppellite nelle foibe migliaia di persone, si è cercato di seppellire anche la loro memoria.

Un po’ troppo, anche per la “kultura” storica italiana, egemonizzata per decenni dall’ideologia marxista.

Per ricordare i martiri delle foibe e le centinaia di migliaia di italiani che alla fine della II guerra mondiale dovettero lasciare gli ex territori italiani dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia, profughi in patria, propongo una delle più famose sonate per violino che siano state mai scritte: “Il Trillo del Diavolo”, del 1713, di Giuseppe Tartini.
Propongo questo celeberrimo brano non solo per la sua bellezza, ma anche perché Tartini (1692 – 1770) era nativo di Pirano, in Istria, (ora in Slovenia), uno dei luoghi al centro delle tragiche vicende di cui oggi facciamo memoria.

Il titolo della sonata, per violino e basso continuo, in Sol minore, deriva dal fatto che il grande compositore veneto sognò di fare una sfida con il diavolo stesso, e questi eseguì una musica così sublime, di cui “Il Trillo del Diavolo” sarebbe una labile trascrizione. In realtà l’opera è un caposaldo della musica per violino, e nelle parti virtuosistiche anticipa la genialità di Paganini.

Possiamo dire che il titolo del brano in questa giornata ha un significato del tutto particolare: il diavolo sembrò in effetti trionfare nelle foibe; e tra i martiri di quell’orrenda carneficina voglio ricordare Don Francesco Bonifacio, sacerdote, nato come Tartini a Pirano, torturato e poi eliminato nel settembre del 1946.
Solo una vittoria apparente di satana, però, poiché Don Francesco Bonifacio è stato beatificato nel dicembre 2008, alla testa di una schiera di martiri per i quali il “Larghetto Affettuoso” del I Movimento della sonata di Tartini sembra un premonitore e commosso saluto.

Invito comunque ad ascoltare tutta la sonata, anche perché eseguita da uno dei più grandi violinisti viventi: Uto Ughi, nato a Busto Arsizio (1944), anch’egli di origini istriane; i suoi genitori, come Tartini, erano di Pirano, scampati in tempo agli eccidi dei “fenomeni carsici”.




giovedì 9 febbraio 2017

Quando la grammatica ti salva la vita

 Racconto surreale (di fantasia)






La grammatica mi è sempre piaciuta. Forse per il tipo di scuola che ho fatto, quella classica, o forse per i bravi insegnanti che me l’hanno fatta apprezzare.
Non avrei creduto però che un giorno mi sarebbe servita per “salvare” una classe di studenti agli esami di maturità.
Era una classe V di un istituto professionale. Io ero commissario interno, il “difensore d’ufficio”, in una commissione allora tutta esterna di sei docenti.
Al professionale l’italiano è una materia sacrificata, poiché il grosso del programma è costituito da materie d’indirizzo. 
Il terrore degli studenti, anzi, studentesse nella quasi totalità, era perciò quello di avere un commissario d’italiano, o il presidente di commissione, che provenisse da un liceo.
Quell’anno dal Ministero venne nominato come presidente di commissione un’insegnante proveniente da un liceo classico, docente di materie letterarie.
Nella classe si diffuse il panico...
Io pensavo con preoccupazione ai temi scritti, dove la grammatica spesso latitava; e si sa quanta importanza abbia quella prova.
Gli esami iniziarono. La presidente si dimostrò fin da subito una persona severa e arrogante. Quando, finiti gli scritti e la prova tecnica, si passò alla correzione collegiale dei temi, dissi mentalmente, come Don Abbondio davanti ai bravi: “ci siamo”.
Il primo tema da correggere era di una delle migliori alunne. Non c’era rigo su cui la presidente non mettesse il becco e di conseguenza non facesse segnare con la matita. Cercavo di fare una strenua difesa, ma i segni al bordo del foglio o sotto le parole si moltiplicavano, mentre dentro di me pensavo alle alunne più “scarse”: questa me le boccia tutte.
Ad un certo punto (ovviamente un caso fortuito, ma per me qualcosa di più) ci imbattemmo in una frase che conteneva il pronome “sé stesso”, scritto proprio così, con l’accento sul sé.
La presidente (uso il termine boldriniano, per motivi inconsci) ebbe subito a dire: “Eh! Quando il sé è seguito da stesso o medesimo, sarebbe meglio non accentarlo”.
Ringraziai dentro di me il Signore, e pensai: questa volta ti ho fregato, cara mia! “No, dissi senza scompormi troppo, lasci stare; il pronome va bene così”. “Eh no! - disse lei alzando la voce - Quando il sé è seguito da stesso, è meglio togliere l’accento. Quindi lo segno”. Allora anch’io alzai un po’ la voce e dissi con fermezza: “È vero esattamente il contrario. Il pronome sé  andrebbe sempre accentato. Quando è seguito da stesso o medesimo, l’accento si può omettere”. 
“Come?! Ma non è così! Quando è seguito da stesso o medesimo, l’accento è bene toglierlo!”
Avevo ormai raggiunto il mio scopo: farle abbassare la cresta. Dissi: “Mettiamola così: se ha ragione lei, io mi gioco la mia onorabilità d’insegnante di lungo corso; se ho ragione io, lei ci paga stamani la colazione. Guardi, lì ci sono i dizionari: Zingarelli, Devoto-Oli, Palazzi… Scelga lei”.
Subito un commissario si alzò, prese lo Zingarelli, trovò il lemma e lesse a voce alta: “Sé, pronome personale di terza persona… Se seguito da stesso, anche senza accento”.
La presidente diventò bianca come il muro che aveva alle spalle, io feci finta di nulla e dissi: “Stamani ci paga la colazione”.
La correzione del tema continuò più o meno così: se una parola o una frase o una virgola le sembrava da correggere, prima diceva: “Senta, Amicusplato, io qui segnerei”. E io: “No, via, può andare bene anche così”...
Per farla breve, tutta la classe venne promossa.

Lo so che è ormai abitudine non mettere più l’accento dopo il sé, quando è seguito da stesso/a o medesimo/a. E anche l'Accademia della Crusca la considera opzione valida, insieme alla forma accentata. Ma ad es. l'Enciclopedia dell'Italiano Treccani usa sempre la forma accentata. La prof del liceo avrebbe anche oggi comunque torto; non poteva segnare né errore né imperfezione.

A meno che la Boldrini non emani una legge anche sugli accenti.



martedì 7 febbraio 2017

Levàmmoce ‘sta maschera (anche se è carnevale)





Ci sono delle canzoni o dei brani musicali che ogni tanto devo riascoltare, quasi per una carenza di zuccheri a livello melodico-affettivo...

In ordine di priorità il Canto di Solveig, di Edvard Grieg, che non per niente ho messo come clip audio nel mio profilo di blogger. Ogni tanto devo riascoltarlo; se no, entro in crisi glicemica.

Poi (ma è un poi per modo di dire, siamo sempre a livelli clinici), Mattinata ("O Lola") della Cavalleria Rusticana, specialmente nella registrazione di Caruso del 1905. 

Quando però mi assale la nostalgia, allora bisogna che faccia ricorso alla canzone napoletana; e qui la scelta diventa infinita: si tratta solo di mettere mano al barattolo della nutella.

Ora è proprio il caso della nostalgia; il carnevale mi fa quest’effetto. Ripenso ai carnevali di un tempo nel mio paese: coriandoli, stelle filanti, e qualche bella e indimenticata mascherina…

Ripropongo “Dicintencello vuje”, Diteglielo voi, che le voglio bene. Una canzone del 1930, di R. Falvo e E. Fusco,  qui cantata da Sal Da Vinci (2005).

Sembra una dichiarazione d'amore per interposta persona: 'A voglio bene (Le voglio bene), ma alla fine, tolta la "maschera", si scopre essere una dichiarazione in diretta: Te voglio bene...  

Pochi minuti per rialzare il livello degli zuccheri, e dei sentimenti.


È del tutto inutile notare che Lucio Dalla si servì del ritornello di questa stupenda canzone per la sua non meno stupenda “Caruso” (1986).




Dicitencello vuje

Dicitencello a 'sta cumpagna vosta
ch'aggio perduto 'o suonno e 'a fantasia...
ch' 'a penzo sempe,
ch'è tutt''a vita mia...
I' nce 'o vvulesse dicere,
ma nun ce 'o ssaccio dí...

Rit.'A voglio bene...
'A voglio bene assaje!
Dicitencello vuje
ca nun mm''a scordo maje.
E' na passione,
cchiù forte 'e na catena,
ca mme turmenta ll'anema...
e nun mme fa campá!...

Na lácrema lucente v'è caduta...
dicíteme nu poco: a che penzate?!
Cu st'uocchie doce,
vuje sola mme guardate...
Levámmoce 'sta maschera,
dicimmo 'a veritá...

Te voglio bene...
Te voglio bene assaje...
Si' tu chesta catena
ca nun se spezza maje!
Suonno gentile,
suspiro mio carnale...
Te cerco comm'a ll'aria:
Te voglio pe' campá!...

(R. Falvo)



lunedì 6 febbraio 2017

Nun se sa più scrive (pasquinata)








Anvedi te, stan tutti a lamentasse
che nun se sa più scrive in itajano.
Ma, li mortacci, s’entri in una classe
er problema lo vedi, sano sano.

Uno  manda messaggi a la morosa,
c’è chi ascolta ‘na museca der caz*o,
quel’antra mezza gnuda se sta ‘n posa
per un selfie e spedillo ar su’ regazzo.

Er professore parla e li scolari
nun lo stanno a seguì ne la lezione;
accusì rimarrano de’ somari:
politici faran de  professione  

e ministri de pubblica istruzione.









giovedì 2 febbraio 2017

La Candelora (con Händel)





Uno dei punti di riferimento della storia della musica è l’oratorio “Il Messia” di G. F. Händel, composto nel 1741.
Un’opera mirabile, una musica “divina”, che lascia ogni volta stupefatti per la freschezza e la magnificenza del suo impianto e delle singole parti.
Dalle antiche profezie, fino alla venuta del Messia, alla sua passione, morte e risurrezione, è un susseguirsi di brani orchestrati, cantati in coro o da solisti, con lo splendore di una musica che supera il tempo e lo spazio.

Per questo, nel giorno della Presentazione di Gesù al Tempio e della Purificazione di Maria Santissima, festa conosciuta popolarmente col nome di Candelora, mi pare opportuno postare dal “Messia” un piccolo brano corale (soprani-contralti-tenori-bassi) con orchestra.
Piccolo per modo di dire. È un travolgente fiume di note, che parte dall’assolo del soprano come da una sorgente, per poi arricchirsi dagli infiniti apporti delle altre sezioni, fino a placarsi nel grandioso finale.
Musica che supera ogni spazio. Ho preferito scegliere a questo riguardo l’esecuzione di un coro coreano di Seul, anziché quella di qualche coro occidentale, magari più perfetta, meno solfeggiata e con più sfumature.
Ma è evidente, nella performance coreana, l’impegno e la passione per la mirabile partitura.

“And He shall purify the sons of Levi,
that they may offer unto the Lord
an offering in righteouness”.

Ed Egli purificherà i figli di Levi,
perché essi potranno offrire al Signore
un’offerta secondo giustizia.

Parole prese dal profeta Malachia (3, 3).

Buona festa!