venerdì 24 luglio 2009

Aut-Aut. La vita è una scelta (Kierkegaard)








Tra i pensatori moderni un fascino particolare lo esercita il filosofo danese  Søren Kierkegaard (1813-1855).

Kierkegaard rivendica l’assoluta libertà di ogni singola persona, valore supremo che non può essere sacrificato a nessuna logica di potere.

Egli illustra il suo pensiero con tre immagini, ognuna delle quali rappresenta un modo di vivere, uno “stadio di esistenza”.

Il primo stadio è da lui chiamato “estetico”, e viene raffigurato dal Don Giovanni di Mozart, da colui cioè che fa della vita una continua ricerca del piacere. Don Giovanni cerca di cogliere l’attimo fuggente e di non farsi sfuggire nessuna occasione.
A lungo andare questo stato di vita porta alla disperazione: la giovinezza fugge, così come le occasioni, e l’attimo fuggente non può essere fermato.
La disperazione è il riconoscimento dell’impossibilità di fondare l’esistenza solo sull’estetismo, perché contraddittorio in se stesso. Si vuol fermare ciò che invece fugge irreparabilmente; è una vita che si sbriciola nel nulla.
L’uomo si è affidato all’esteriorità fuggente; quindi occorre rientrare in se stessi, trovare in se stessi il fondamento dell’esistere.

È il secondo stadio, denominato “etico”, e viene rappresentato dalla figura del buon "Guglielmo”, impiegato statale e sposato, che trova nella fedeltà al suo lavoro e nella dedizione alla famiglia i valori dell’esistenza. È una vita fondata più solidamente di quella “estetica”, perché ha nella ripetizione volontaria delle azioni giornaliere il punto qualificante. È l’uomo di Kant, tutto moralità e impegno.
Ma anche questo stadio a lungo andare mostra il suo punto debole: l’impossibilità di non infrangere nessuna legge, l’impossibilità di essere sempre coerenti, l’impossibilità di vivere una moralità assoluta. L’uomo è anche fragilità, incoerenza, peccato. L’uomo si accorge che non può fare il bene che vorrebbe, ma compie il male che non vorrebbe.
L’angoscia è il punto di arrivo di questo stadio, la “malattia mortale”, secondo la definizione di Kierkegaard.
Infatti l’uomo perde ogni speranza di fondare la vita in se stesso, nelle proprie forze, e quindi è colpito da una malattia mortale, che non dà scampo.

L’esito di questa malattia mortale, da una parte, è l’impossibilità di vivere.
Ma l’uomo, d’altra parte, desidera vivere e vivere in pienezza. Proprio da questo desiderio, impossibile alle sole forze umane, scatta il bisogno di affidarsi a Dio, come Abramo, che è l’uomo di fede.
Nello stadio della fede, l’uomo si affida totalmente a Dio, l’unico che può realizzare il desiderio di fermare il tempo (Egli è l’eterno) e di dare speranza nella ripresa morale.
È proprio “la ripresa” il segno più evidente che la vita di fede è l’unica possibile. Infatti, paradossalmente, l’uomo che si è affidato a Dio donandogli tutto se stesso, si trova arricchito cento volte di più di tutto ciò che aveva perduto negli stadi precedenti. C’è la ripresa della gioia di vivere, cercata nello stadio estetico, e c’è la ripresa della forza di volontà, in precedenza sconfitta dal peccato.
Nella vita di fede si torna a gustare in pienezza l’attimo fuggente della realtà, perché solidamente ancorata al suo Creatore, e l’uomo torna capace di compiere azioni morali, perché sostenuto dalla grazia di Cristo.

Criticando la logica di Hegel, che tutto risolveva nella sintesi degli opposti (et-et), Kierkegaard ricorda invece la cruciale necessità di scegliere tra due opposti: aut-aut. La vita è una scelta.

E ognuno di noi è chiamato a questa scelta decisiva.

4 commenti:

  1. grazie mille! Lo porto all'esame io!

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  2. Grazie per questo commento che mi ha fatto ritornare giovane, quando un pò tutti ci sentivamo esistenzialisti.

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    1. Ho letto solo ora il commento e me ne dispiace :-(
      Ma è vero che noi di una certa età, da giovani, abbiamo tutti più o meno sentito il fascino dell'esistenzialismo...
      E Kierkegaard ne è stato il geniale fondatore.
      Ma il suo fascino in me non si è mai esaurito... ;-)
      Ciao!

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