venerdì 7 novembre 2014

Un po' di sentimento non guasta




Ci sono alcune canzoni napoletane che sono veri e propri capolavori d’arte. Non per niente sono conosciute in tutto il mondo e sono state cantate dalle più celebri voci della lirica, da Caruso a Mario Del Monaco, da Tito Schipa a Beniamino Gigli, da Franco Corelli a Giuseppe Di Stefano, da Carlo Bergonzi a Luciano Pavarotti, per limitarci ad alcuni massimi tenori italiani.

Non starò qui a dissertare sul perché il territorio di Napoli sia stato così fertile di capolavori canori. Voglio solo far presente che già al tempo di Scarlatti e Pergolesi nella capitale borbonica erano in piena attività ben quattro conservatori musicali, senza parlare dei numerosi teatri, oltre al San Carlo, il più antico teatro d’opera del mondo.  

Una civiltà musicale che affonda le sue radici nei secoli passati e che ha trovato nell’anema e core del popolo partenopeo la sua caratteristica principale.

In effetti, non possiamo ascoltare ad esempio Marechiare, O sole mio, Torna a Surriento, Dicitencello vujeAnema e core, Reginella (“T’aggio voluto bene”), senza emozionarci. Così come, più vicino a noi, le geniali canzoni di Renato Carosone.

Voglio perciò ascoltare uno dei brani più affascinanti del repertorio napoletano: "Tu ca nun chiagne" (Tu che non piangi). È stato composto dall’autore di Torna a Surriento, Dicitencello vuje, Non ti scordar di me, e cioè Ernesto De Curtis (1875-1937), un vero maestro compositore. Era pronipote di Saverio Mercadante, e si era diplomato in pianoforte nel celebre Conservatorio napoletano di S. Pietro a Majella, quello stesso dove avevano insegnato Paisiello e Donizetti, e dove avevano studiato Bellini, Mercadante, Giordano, Leoncavallo, Cilea, Denza (“Funiculì funiculà”), Tosti (“Marechiare”) ed altri nomi eccellenti fino a Carosone, Salvatore Accardo e Riccardo Muti.

La canzone è stata composta nel 1915, nel periodo in cui l’Italia entrò in guerra, nella Grande Guerra. Le parole, del valente poeta Libero Bovio, parlano invece di un'altra “montagna” (il Vesuvio), di luna bianca, di amore. Un amore non corrisposto, che lascia indifferente l’amata, e fa piangere l’innamorato. 
Una guerra di amore, che non fa vittime, ma che strazia ugualmente il cuore.

Ho preferito postare l’esecuzione di Mario Merola, anziché quella di un grande tenore. E ho preferito ascoltarla in una specie di “sceneggiata napoletana” (in realtà è una scena del film “Giuramento”, del 1982), e in una versione in bianco e nero molto imperfetta (ce ne sono di migliori nel web), ma a mio parere molto efficace. 
E poi c’è sovrimpressa la lirica, in lingua italiana, inglese e napoletana. What else?

Dico la verità. Non posso ascoltare questa canzone senza commuovermi un po’. 
L’inizio è davvero “leopardiano”, con la luna, la montagna e la notte. E un amore infelice.

Buon ascolto  notturno...


2 commenti:

  1. Che grande e gradita sorpresa, caro Antonio.

    Quando ascolto le canzoni napoletane, l'emozione mi assale sempre...

    Mi fa piacere che le apprezzi pure tu.

    Ho vissuto con te un attimo di commozione.

    Un abbraccio affettuoso.

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    1. Napoli, la sua cultura, la sua gente, le sue canzoni, il suo grande passato! So che tu, carissima Gianna, hai qualche legame con questa città, che ha dato molto all'Italia, più di quanto abbia ricevuto.

      Le canzoni napoletane fanno veramente fremere di emozione, e non lasciano certo indifferenti.

      Grazie per aver condiviso con me questa emozione... ;-)

      Un grande abbraccio :-)

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