Quando da ragazzetto (avrò avuto 8 o 9 anni) mi dissero che la Befana era mia madre, ci rimasi male.
C’è sempre nel gruppo di amici, o nella scuola che frequenti, qualcuno più furbo di te, cioè di me; e così la magia di quella notte, attesa tutto l’anno, mi scoppiò davanti come un palloncino colorato.
Lo domandai a mia madre, e lei sorridendo mi confermò la verità. La calza la preparava lei: tre mandarini, due cavallucci, un torroncino, un pezzetto di cioccolata (che a me piaceva tanto), qualche altro dolciume, e un po’ di carbone (vero, di querciolo).
Rimasi a bocca aperta. La vecchina, il ciuchino, il fastellino di fieno... tutta una favola. Il rumore sul tetto, i segni sulla cappa del camino, tutte storielle.
Per qualche tempo guardavo mia madre indispettito, come se avessi ricevuto un torto imperdonabile.
In realtà, ero arrabbiato con me stesso; non avrei potuto più appendere alla cappa del camino quella calza rossa e lunga, dalla quale uscivano i miei sogni, i miei desideri…
“Ma ora sei grande, lo devi sapere!” Queste parole di mia madre attenuarono l’immensa delusione, e dentro di me combatterono per alcuni giorni con la fiaba (ormai) della Befana.
E vinsero. Ora ero grande, la Befana era una storia per bambini, era la mamma che riempiva la calza. E il ciuchino ero io, che ci avevo creduto… Mi sentii più grande.
L’anno successivo, la mattina del 6 gennaio, quando scesi dalla camera in cucina, appesa alla cappa del camino penzolava una bella calza rossa piena di regali: i soliti mandarini, torroncini, la cioccolata, e il solito immancabile carbone (vero, di querciolo).
Fino a che mia madre è vissuta, e io avevo più di 50 anni, mi ha sempre fatto trovare la calza della Befana appesa alla cappa del camino. Rossa naturalmente e sempre con un po’ di carbone, vero, di querciolo (il migliore).
Stamani, quando mi sono alzato, ho guardato la sua fotografia. Era bella mia madre, mi ha sorriso, con un po’ di tristezza. Ho guardato istintivamente alla cappa del caminetto.
Da qualche anno la Befana, chissà perché, non passa più a portarmi quella bella calza rossa…
Bellissimo e struggente questo pezzo, Antonio, e ti chiamo col tuo nome vero perchè qui hai aperto veramente una finestra sul tuo cuore!
RispondiEliminaGrazie!!!
Annamaria
sognare, vivere di miti e chimere è tutto ciò che mi resta, perchè ciò che è concreto, nel mondo che mi circonda e vomitevole, troppa voglia di potere, di possedere ilmateriale a discapito dei sentimenti. Allora , trovandomi in una condizione di debolezza, per non subire tanti falsi valori, che anche me coinvolgono, preferisco pensare che babbo natale vive lassù ,al polo, e la Befana chissa in quale tranquilla catapechia.
RispondiEliminaCome mia madre, donna semplice del popolo, possedesse una ricchezza interiore tanto grande (non solo nel giorno dell'Epifania...), è qualcosa che mi ha sempre stupito.
RispondiEliminaHo imparato più da mia madre, che da tutti i libri di filosofia...
Grazie a te, cara Annamaria, per le tue affettuose parole :-))
Antonio
Non dobbiamo mai lasciarci imprigionare, carissimo Luca, dai condizionamenti che la società attuale mette in atto, e che vogliono ridurre l'uomo a una sola dimmensione, quella materiale.
RispondiEliminaLa fantasia, l'arte, la bellezza, la musica, la poesia, i sogni, i sentimenti (e io aggiungo, la fede religiosa) permettono di svincolarsi dal giogo del tempo e dello spazio in cui siamo confinati, per far valere il primato della nostra libertà di spirito.
Grazie del tuo commento, sempre così prezioso :-))
Ciao!
Dolcissima la tua mamma e dolcissimi i tuoi ricordi...
RispondiEliminaUna bella fiaba.
Sì, una piccola fiaba che ho vissuto, e di cui sono grato a mia madre :-)
RispondiEliminaMa penso che ogni madre abbia in sé una ricchezza inestimabile; e in un modo o in un altro trova sempre la maniera di valorizzare :-)
Grazie, carissima Gianna, delle tue care parole :-))