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sabato 29 ottobre 2016

Fiori scoloriti





Giorni non proprio sereni. Il terremoto ha ripreso a devastare il Centro Italia, e popolazioni intere sono costrette a lasciare le proprie case e i luoghi dei loro affetti.

Accompagno  questi avvenimenti postando un brano di polifonia pura, a cappella. Non è il momento delle grandi sonorità strumentali. Basta la voce umana e un delicato sonetto di Matteo Maria Boiardo (XV secolo), musicato da Zoltàn Kodàly: "Fior scoloriti".

È il secondo dei "Quattro Madrigali Italiani",  pubblicati dal grande artista magiaro nel 1932; il più bello, sia dal punto di vista letterario che musicale.

Si tratta di un dialogo tra il poeta e alcuni fiori che hanno perduto la loro "madonna" che li accudiva; un po' come i fiori (e tutte le cose più belle) nelle abitazioni dei Monti Sibillini e di Camerino colpite dal sisma. 

Il brano è a 4 voci femminili: soprani I, soprani II, soprani III, contralti (la Boldrini avrà da ridire con tutte queste desinenze maschili?) 

Un madrigale dolcissimo e insieme tristissimo. La prima volta che lo ascoltai, cantato al Concorso Polifonico aretino da un coro ungherese (i cori femminili ungheresi erano i migliori), rimasi incantato.

Anche il coro qui postato è ungherese, il Coro femminile della città di Győr, diretto da Miklòs Szabò. Molto bravo.

Che i fiori sibillini tornino a risplendere!




Fior scoloriti

– Fior scoloriti e pallide viole,
che sì suavemente il vento move,
vostra Madonna dove è gita? e dove
è gito il Sol che aluminar vi sole? –

– Nostra Madonna se ne gì co il Sole
che ognor ce apriva di belleze nove,
e poiché tanto bene è gito altrove,
mostramo aperto quanto ce ne dole. –

– Fior sfortunati e viole infelice,
abandonati dal divino ardore
che vi infondeva vista sì serena! –

– Tu dici il vero, e nui ne le radice
sentiamo el danno, e tu senti nel core
la perdita che nosco al fin te mena. –


(Matteo Maria Boiardo)





giovedì 17 settembre 2015

L'Ungheria e gli altri




L’Ungheria è oggi nell’occhio del ciclone per il muro e il reticolato che ha innalzato ai suoi confini per impedire l’ingresso di clandestini nel suo territorio.

Ieri si è svolta una vera e propria “battaglia” tra le migliaia di emigranti e le forze dell’ordine magiare schierate a difesa delle barriere.

Non è stato un bello “spettacolo”, certamente. In effetti, respingere le persone con la forza non è mai un bel vedere. Specialmente se queste persone hanno fatto un migliaio e più di km, tra sacrifici di ogni genere.

Detto questo, faccio due considerazioni, senza lasciarmi condizionare né dal “politicamente corretto”, sempre di gran moda, né dall’ideologia opposta, cioè quella del bastian contrario.

La prima è di carattere storico-sociale.

L’Ungheria ha subito nel corso del tempo molte invasioni e occupazioni, e negli ultimi secoli in particolare quelle turche, quelle austriache e quelle sovietiche. Sono state tutte drammatiche. Le battaglie del popolo magiaro per liberarsi da quei gioghi sono epiche. Basterà ricordare il re Mattia Corvino contro i Turchi, l’insurrezione del 1848 contro l’impero asburgico sotto l’impulso di Sándor Petőfi,  l’insurrezione del 1956 contro l’Unione Sovietica, guidata da Imre Nagy.

Da pochi decenni, dopo la caduta dell’impero sovietico, ha potuto finalmente riacquistare la sua libertà e la sua dignità di popolo sovrano, la sua identità.

Come si fa a non capire che un flusso incommensurabile di persone  provenienti da ogni dove, e praticamente ignote, può mettere in crisi una società che si è a mala pena rimessa in sesto da pochissimo tempo?

La seconda considerazione riguarda questi flussi “migratori”.

Vedere migliaia e migliaia di giovani-non-si-sa-chi “pretendere” di entrare con la forza in casa altrui (l’Ungheria non è casa loro), dare battaglia alle forze dell’ordine, cercare di smantellare le barriere di recinzione, non è stato un bello spettacolo neppure da parte di questi elementi.

Per dirla tutta, è un brutto segno. Entrare in Europa, per questi tali, sembra ormai un diritto acquisito; passare o restare, non farsi registrare, andare dove vogliono, è il loro modo di vedere le cose.

Se l’Europa non trova alla svelta la maniera di regolare questi flussi, e rispedire al (paese) mittente la maggior parte di questi tali, che non hanno i requisiti dell’accoglienza, ci ritroveremo con qualche brutta sorpresa.

Spero di no, ovviamente.



Nella clip, il grande canone "A magyarokhoz" (1942) di Zoltán Kodály, su parole del poeta ungherese Dániel Berzsenyi (1807). Un inno alle glorie della storia ungherese.



mercoledì 17 agosto 2011

Una nazione festeggia la sua nascita



Nella regione carpatico-danubiana la nascita dello stato dell’Ungheria, nell’anno 1000, ha costituito per l’Europa uno dei cardini della sua stabilità e della sua definitiva configurazione.

Gli Ungari, popolazione che proveniva dalle steppe dell’Asia centrale, erano stati nell’alto Medioevo il terrore delle popolazioni stanziali d’Europa.

Il nome francese “Ogre”, che in origine significava “Ungaro”, passò a significare “orco”. Un cambio di significato che dice tutto.

Le scorrerie degli Ongri furono le ultime, dopo quelle germaniche e normanne, e terminarono quando il loro capo, Vajk, il 20 agosto dell’anno 1000, accettò la corona regale inviata da Papa Silvestro II con il beneplacito dell’imperatore Ottone III di Sassonia.

Vajk accolse la fede cristiana in pienezza, prese il nome di Stefano e organizzò il suo regno in modo esemplare, cosicché oltre alla fine delle scorrerie, nel cuore dell’Europa si ebbe una nazione culturalmente e socialmente progredita.
Nel corso dei secoli fu anche un baluardo di resistenza nei confronti della bellicosa avanzata turca.

Gli ungheresi hanno proclamato Stefano patrono della loro nazione e la Chiesa lo ha dichiarato santo.

Ogni volta che il popolo magiaro ha dovuto lottare per la sua sopravvivenza, come nel 1848 e nel 1956, ha fatto sempre riferimento alle sue vigorose radici umane e cristiane, incarnate in modo esemplare dal re Santo Stefano, “Szent István király”.

Impensabile un’Ungheria senza il riferimento a lui.

Per questo anche Zoltán Kodály (1882-1967), il grande polifonista ed educatore musicale dell’Ungheria moderna, gli ha dedicato un bellissimo mottetto.

Questi giorni in Ungheria e nella Chiesa universale, tra il 16 e il 20 agosto, si ricorda S. Stefano.

Mi pare doveroso perciò postare il canto di Kodály: "Ének Szent István királyhoz" (Inno al re Santo Stefano).

Devo dire che a questo canto di Kodály sono molto affezionato, avendolo anch'io cantato proprio in Ungheria, ad Esztergom, l'antica capitale del regno, dimora di S. Stefano.



Ah, hol vagy magyarok, tündöklő csillaga, ki voltál valaha, országunk istápja?
Hol vagy István király? téged magyar kíván, gyászos öltözetben, te előtted sírván.

Virágos kert vala, híres Pannónia, mely kertet öntözte, híven Szűz Mária.
Isten igéje volt, ő volt szép virága, behomályosodott örvendetes napja. 
...
 
Ah, dove sei, stella lucente degli Ungheresi?
Che cosa era questo paese!
Dove sei Re Stefano? Ungheria auguri a te!
Pianto luttuoso di fronte al tuo vestito.

Giardino di fiori, era famosa ovunque la Pannonia, 
casa nel giardino,  fedele alla Vergine Maria,
e giardiniere era Re Stefano...
...

martedì 31 agosto 2010

Notti in montagna (con Kodály)...




L'estate sta finendo, con l'agosto. Le ultime nottate in montagna, prima della ripresa dei lavori.

Le passiamo con la musica di Zoltán Kodály... 

Chi ama la musica corale non può non avere un debole per Kodály (1882-1967).

Le sue composizioni polifoniche sono il banco di prova di ogni coro che si rispetti.
Nessun maestro può affrontare un spartito di Kodály se non ha un gruppo ben preparato, sia vocalmente che tecnicamente.

Un canto di Kodály non si può “mettere su” in quattro e quattr’otto. Dissonanze, salti vocali difficili, finezze espressive, non si possono improvvisare. Hanno bisogno di uno studio assiduo e di una preparazione di lunga data.

Non a caso Kodály è stato anche un grande educatore del popolo magiaro, facendosi promotore dell’insegnamento della musica fin dalla scuola dell’infanzia, con un celebre Metodo che porta il suo nome.

Io che ho un debole per la polifonia, da vecchio corista di un bel coro, voglio concludere il mese di agosto in bellezza proprio con Kodály.

Niente orchestre, niente strumenti inventati dall’ingegno umano, solo lo strumento musicale più bello che esista: la voce umana.

Un coro polifonico, e per di più senza parole: solo suoni.

Si tratta del primo dei cinque brani dedicati alle “Notti in Montagna” (Hegyi Èjszakák), del 1923.

È anche il più bello. Il mistero, il fascino e la paura di una notte, nella solitudine alpestre, sono magnificamente espressi da questo moderno "quadro musicale".

Per coloro che non hanno dimestichezza con la polifonia, faccio solo notare che il pezzo, per coro femminile a 5 voci, inizia con un progressivo accordo dissonante (Fa-Sol-La-Si). Ogni voce fa la sua nota e la “tiene”.
Tenere fermo un accordo dissonante è come tenere insieme forze contrastanti. Quanto di più difficile ci sia, anche nella coralità.

Per di più si tratta di un trìtono, del duro “diabolus in musica”…

Non c’è bisogno di dire che il coro che lo esegue è eccellente. Solo un coro di valore può eseguire questa musica.

È il Coro Femminile di Gyor, diretto da Miklòs Szabò.

Un applauso meritato!

lunedì 21 dicembre 2009

Canto d'Avvento (Kodály)




Chi ama la polifonia non può non amare Zoltán Kodály (1882-1967), colui che in epoca contemporanea ha restituito pieno valore allo strumento musicale per eccellenza: la voce umana.

Kodály ha scritto polifonie stupende, e chi canta in un coro di qualche valore lo sa certamente.
È stato anche un grande pedagogista della musica, e il suo metodo per insegnarla ai bambini o a coloro che non conoscono le note è ben noto ai maestri di coro.

Ma a mio parere Kodály ha fatto molto di più di tutto questo; egli ha compiuto un’opera titanica: ha cercato di riaggregare una nazione intera, l’Ungheria, mediante il canto corale.

Può sembrare una esagerazione, o una curiosa trovata. È invece la realtà. Negli anni in cui l’Ungheria ha avuto Kodály come responsabile dell’educazione artistica, dal 1945 fino alla sua morte, egli si è prodigato per diffondere il gusto della musica vocale, il gusto di cantare insieme, raggiungendo risultati straordinari.

Tra gli anni 50-90 del secolo scorso non c’è stata altra nazione paragonabile nel canto corale alla nazione magiara; dalla scuola dell’infanzia all’università, dalle chiese alle fabbriche, dovunque ci fosse un aggregato di persone, lì è stato formato un gruppo corale. E sono stati raggiunti livelli di eccellenza da moltissimi cori, guidati da grandi direttori; citerò per tutti György Gulyás (1916-1993), il direttore del celebre Coro Polifonico di Debrecen.

Una nazione intera ha ritrovato le sue radici nell’antica musica gregoriana e nei canti popolari, opportunamente e genialmente rielaborati a cappella (cioè a più voci e senza accompagnamento di strumenti) dal grande musicista magiaro.

Di lui ho già postato altre volte musiche polifoniche. Chi vuole riascoltarle, cerchi nel blog alle etichette "Kodály" e "polifonia".

In questo tempo di Avvento, in vista del Natale, propongo ora Adventi Ènek, cioè “Canto d’Avvento” (1943), una suggestiva rielaborazione a quattro voci dispari (soprani, contralti, tenori, bassi) del canto gregoriano “Veni, veni, Emmanuel”. Emmanuel significa Dio-con-noi, e si riferisce al Figlio di Dio che si fa uomo.

Si noti la struttura geniale del brano. Il canto inizia con la semplice e bellissima melodia gregoriana, cantata all’unisono da tutto il coro. Alle parole del ritornello “Gaude, gaude”, le voci si dividono e inzia la rielaborazione polifonica.
La melodia gregoriana passa nella seconda strofa alla sezione dei bassi, mentre le altre voci tessono le loro armonie; quindi viene cantata dalla sezione dei soprani, poi dai contralti, infine dai tenori insieme ai soprani.

In pratica il canto gregoriano è sempre presente, come filo conduttore, e sopra o sotto di esso viene costruita la tessitura musicale.
È un vero e proprio ritorno alle origini della polifonia medievale, che consisteva in una melodia gregoriana accompagnata da altre voci, a formare il cosiddetto “organum”.

Naturalmente qui siamo davanti ad un “organum” in versione moderna, con le novità armoniche del XX secolo.

Il gruppo corale che esegue il canto è formato da giovani dilettanti volenterosi, e perciò con qualche giustificato limite.
Apprezzabile comunque la limpidezza e la dolcezza delle voci femminili, mai sguaiate, neanche nelle note acute.

Traduco la prima strofa, che riassume un po' tutto il canto:

Vieni, vieni, Emmanuel,
libera Israele prigioniero,
che geme in esilio
privato del Figlio di Dio.
Gioisci, gioisci! L’Emmanuel
nascerà per te, Israele.





Veni, veni Emmanuel,
Captivum solve Israel,
Qui gemit in exilio
Privatus Dei Filio.
Gaude, gaude! Emmanuel
nascetur pro te, Israel.

Veni, o Jesse Virgula;
Ex hostis tuos ungula,
De specu tuos tartari
Educ et antro barathri.
Gaude, gaude! Emmanuel
nascetur pro te, Israel.

Veni, veni, o Oriens
Solare nos adveniens;
Noctis depelle nebulas
Dirasque noctis tenebras.
Gaude, gaude! Emmanuel
nascetur pro te, Israel.

Veni clavis Davidica;
Regna reclude caelica;
Fac iter tutum superum,
Et claude vias inferum.
Gaude, gaude! Emmanuel
nascetur pro te, Israel.

Veni, veni Adonai,
Qui populo in Sinai
Legem dedisti vertice,
In majestate gloriae.
Gaude, gaude! Emmanuel
nascetur pro te, Israel.

Amen!

mercoledì 25 novembre 2009

Ave Maria. Dalla polifonia cinquecentesca a quella moderna




Le costruzioni polifoniche cinquecentesche sono architetture musicali paragonabili alle cattedrali e alle basiliche.
La “Missa Papae Marcelli” di Palestrina, a 6 voci, del 1563, può essere raffigurata alla coeva Cupola di S. Pietro, per la bellezza e la grandiosità delle strutture.

La voce umana raggiunge qui il culmine delle sue possibilità, oltre il quale sembra impossibile procedere.

In effetti si sentiva ormai il bisogno di ampliare l’orizzonte musicale, con l’introduzione della voce degli strumenti.

L’organo a canne aveva già fatto da tempo la sua comparsa, e veniva usato per rafforzare la voce umana con il raddoppio delle note. Ora si cominciano a comporre direttamente per organo musiche su temi gregoriani e profani, come una partitura polifonica.

Nascono così la Toccata, il Ricercare, la Canzona, la Fantasia, la Fuga, e altri generi musicali, in cui eccelsero subito i compositori italiani, come Cavazzoni, Tarquinio Merola, Andrea e Giovanni Gabrieli, e soprattutto Girolamo Frescobaldi (1583-1643).

Venne composta anche musica per il “cembalo”, cioè il clavicembalo; così come per il liuto, uno strumento a corde, simile ad una grande chitarra, che in quel periodo ebbe una straordinaria importanza. Musica da danza, ma anche musica sacra.

Dalla medievale “viella”, uno strumento ad arco simile alla viola, si svilupparono, sempre nel XVI secolo per opera geniale di liutai soprattutto italiani, la famiglia degli archi: violino, viola, violoncello e contrabbasso.
I “concerti grossi” di Alessando Stradella (1676) e soprattutto quelli di Arcangelo Corelli (1714) fecero scuola ovunque.

Con l’aggiunta degli strumenti a fiato (tromba, flauto, clarino, oboe, fagotto, corno, …) , e delle percussioni, l’orchestra è al completo.
La “Sinfonia dei Mille” di Gustav Mahler (1906) è il lavoro più colossale mai realizzato; si raggiunge non dico il massimo della bellezza, ma certamente il massimo dell’organico: mille gli esecutori, tra strumentisti e cantanti.

La voce umana non hai mai cessato però di esercitare il suo fascino. È lo strumento più perfetto e più bello, perché dotato di un’anima spirituale, e non solo di qualche corda vocale.

E così insieme agli strumenti ha continuato a far bella mostra di sé nell’epoca del melodramma, e oggi della canzone.

Ma ha continuato anche ad affascinare la polifonia a cappella, cioè le voci da sole, come al tempo di Palestrina e di Victoria.

Grandi musicisti del XX secolo hanno dedicato importanti lavori alla polifonia: Stravinskij, Poulenc, Bartòk, Kodàly, Britten, Arvo Part, per citarne alcuni.

Tra questi, chi ha certamente compreso lo spirito del gregoriano, da cui siamo partiti in questo nostro excursus, e da cui tutta la nostra musica in effetti parte, è stato l’ungherese Zoltàn Kodàly (1882-1967). Egli ha saputo valorizzare la musica popolare e antica, tra cui il gregoriano; e unendo sapientemente la tonalità con la modalità, il moderno con l’antico, ha costruito opere notevoli e in particolare stupende polifonie.

Come esempio portiamo la sua “Ave Maria”, a tre voci pari (soprano I, soprano II, contralto), composta nel 1935.

In essa si può notare che la voce bassa del contralto canta tutta l'Ave Maria, prendendo chiari spunti dalla nota melodia gregoriana e movendosi in modalità gregoriana.
Il canto del contralto è via via inframezzato dagli interventi delle due sezioni superiori, che ripetono il gioioso annuncio dell’angelo: Ave Maria!

Nella seconda parte della preghiera il canto si fa più compatto, e ci ricorda un po’ la polifonia di Victoria (nell’invocazione “Santa Maria!”); anche la voce del contralto poi si unisce al resto del coro, per concludere come ha iniziato, da solo, con il saluto dell'angelo: Ave Maria.

Bellissima e geniale composizione, dove il moderno s’incontra con l’antico e ci offre armonie incantevoli e originali.

domenica 15 marzo 2009

Stabat Mater (Kodály)




Lo Stabat Mater è una delle più note sequenze della liturgia cattolica.

Ricorda con accenti commossi e con semplicità quasi popolare il dolore della Madre di Gesù presso la croce.

Il testo viene attribuito a Jacopone da Todi (fine sec. XIII, inizi del XIV).

La sequenza è in lingua latina e in musica gregoriana. Nel corso dei secoli molti musicisti (se ne contano almeno 400!) affascinati dalla bellezza della laude, hanno realizzato su quel mirabile testo bellissimi componimenti.

Il più celebre è lo Stabat Mater di Pergolesi, che il musicista terminò sul letto di morte a soli 26 anni (1736).

Il più bello, in epoca contemporanea, è a mio parere quello di Zoltán Kodály (1882-1967) , il quale ha saputo coglierne lo spirito religioso, eliminando tutto ciò che sa di artificio operistico, e tornando ad una purezza quasi gregoriana.

Kodály lo compose a soli 16 anni e lo rielaborò nella forma attuale nel 1962.

La composizione è a quattro voci dispari (soprani, contralti, tenori, bassi) a cappella, cioè senza accompagnamento di strumenti.

L’incresparsi in alcuni momenti della limpida tessitura musicale e la struggente linea melodica esprimono il dolore della Madre sul Calvario, mentre il composto procedere del canto indica il cammino verso la Risurrezione.

Esemplare l'esecuzione della Schola Gregoriana Mediolanensis, diretta da un grande esperto come Giovanni Vianini.



Stabat Mater


Stabat Mater dolorosa

iuxta crucem lacrimosa,
dum pendebat Filius.

Cuius animam gementem,
contristatam et dolentem
pertransivit gladius.

Christe, cum sit hinc exire,
da per Matrem me venire,
ad palmam victoriae.

Quando corpus morietur,
fac ut animae donetur
Paradisi gloria. Amen.



Stava la Madre addolorata
in lacrime presso la Croce
mentre il Figlio era appeso.

Un spada di dolore trafisse
la sua anima gemente,
rattristata e dolente.

Cristo, quando dovrò partirmene da qui,
fa' che per mezzo di tua Madre
giunga alla palma della vittoria.

Quando il mio corpo morirà
fa' che all'anima sia data
la gloria del Paradiso. Amen.

sabato 14 marzo 2009

Un popolo canta



La caduta del muro di Berlino (1989) ha fatto cadere, con un effetto domino, i regimi dell’Est europeo.

Sono così spariti sistemi totalitari, di cui non sentiamo certo la mancanza.

Ma in un settore almeno, qualcosa di bello è andato forse irrimediabilmente perduto: la musica corale.

I cori dell’Est europeo, oltre all’imponenza degli organici, avevano una grande tradizione di musica polifonica.

Tra queste nazioni spiccava l’Ungheria, che ha avuto nel sec. XX due geni musicali come Béla Bártok e Zoltán Kodály, i quali hanno dedicato molte delle loro opere alla musica polifonica.

Kodály (1882-1967) inoltre è stato un eccellente organizzatore della cultura musicale. Insieme ad un altro grande, Lajos Bárdos, ha ideato un metodo che permette l’insegnamento della musica fin dalla scuola dell’infanzia.

Grandi musicisti, grandi cori e grandi direttori di coro. Questa è stata musicalmente l’Ungheria prima del 1989. Si può anzi dire che Kodály ha cercato di ridare un'identità allla nazione a partire proprio dall'educazione musicale. E in nessun'altra nazione la musica corale ebbe una diffusione così capillare.

Il canto che presentiamo, in una monumentale esecuzione del 1982, nel centenario della nascita di Kodály, aveva ed ha per gli ungheresi un significato particolare. È un po’ il simbolo stesso della nazione magiara: A Magyarokhoz (Agli Ungheresi).

Si tratta di un’ode patriottica, scritta nel 1807 da Dániel Berzsenyi. In essa si incita il popolo magiaro a risollevarsi dalla decadenza e a ritornare all’antico vigore della grande Ungheria.

La musica è stata composta da Kodály nel 1925, in forma di cànone. Il canto, cioè, viene prima eseguito all’unisono, poi viene ripetuto dalle varie sezioni, femminili e maschili, con ingressi in successione.
Si forma così progressivamente una vera costruzione polifonica e data l’imponenza della massa corale si giunge ad una grandiosa, ma non sguaiata, conclusione.

Per l’enorme spazio che separa il direttore dai coristi, le note iniziali sono date simpaticamente con un oboe, e non certo con il diapason.

È il canto di un intero popolo.