Oggi è il dies natalis, il giorno della morte di S. Tommaso d'Aquino, il grande pensatore cristiano che ha dato un contributo essenziale alla ricerca filosofica e teologica.
Non starò qui a fare una dissertazione sul suo pensiero. Ci vorrebbe molto più di un post.
Nemmeno voglio fare una disquisizione sulla fede o sull’ateismo. Ognuno ha il suo cammino da compiere e ci penserà la vita a disegnarlo.
Nemmeno voglio fare una disquisizione sulla fede o sull’ateismo. Ognuno ha il suo cammino da compiere e ci penserà la vita a disegnarlo.
Colgo questa occasione invece per ricordare semplicemente alcuni episodi della mia vita che mi
hanno portato a credere con più convinzione. Momenti che sono impressi nella mia memoria in maniera indelebile.
In prima liceo classico, come è noto, si inizia lo studio
della filosofia.
Il professore un giorno, parlando di Dio, usò più volte il
termine “l’Assoluto”. Questa parola mi colpì profondamente e mi fece
riflettere.
Era una parola che conoscevo per altri motivi: l’ablativo
“assoluto” in latino, il genitivo “assoluto” in greco. Ne conoscevo il
significato etimologico: absolutus, “sciolto
da legami”.
Ma quell’Assoluto usato al posto del nome di Dio mi ampliò
di colpo l’orizzonte mentale e mi fece sentire più grande. Compresi che la mia fede di ragazzo diventava più matura; era una fede che si
univa alla filosofia, attraverso un termine che mi piaceva e che soddisfaceva il mio spirito. La parola Dio nell’adolescenza spesso è sentita come una parola ingombrante,
da catechismo. Ma ora per me era "l’Assoluto", di fronte al quale
nessuno poteva negare di sentirsi “relativo”. La mia fede aveva trovato nella
ragione il suo potente alleato.
Da allora in poi ho potuto pronunziare il nome di Dio con più
profonda convinzione.
Gesù Cristo, i suoi insegnamenti, chi non li conosce? Eppure c’era qualcosa che mi faceva
sentire un po’ a disagio. Quei comandamenti, quelle pratiche religiose, quei
comportamenti da mettere in atto li sentivo, più o meno consapevolmente, come un
faticoso dovere da compiere.
In compenso la Sacra Scrittura mi è sempre piaciuta; sono
oltretutto documenti storici di straordinaria importanza, senza parlare del
bellissimo latino della Vulgata di S. Girolamo, che ancora mi risuona
nell’orecchio, e il più popolare greco della Koinè.
Ebbi così modo, in età universitaria, di frequentare un
corso sulle lettere di S. Paolo, in particolare la Lettera ai Galati, tenuto da un grande biblista, Angelo Tafi.
Fu per me una scoperta straordinaria.
S. Paolo era stato un fervente fariseo, discepolo di Gamaliele,
uno che trovava lo scopo della vita nell’osservanza rigorosa della Legge
mosaica.
Dopo la prodigiosa conversione sulla via di Damasco la sua
vita cambiò radicalmente. Dalla “schiavitù della Legge” scoprì la “libertà dei
figli di Dio”. Riconosce che la Legge mosaica era stata un utile pegagogo (Gal 3, 25); ma con
Cristo, tutto quello che prima lo teneva soggiogato, viene spazzato via. Nessuna
barriera, nessun pregiudizio, nessun impedimento può più fermarlo. È la sospirata
libertà dei maggiorenni.
“Non c’è più né giudeo né greco, né schiavo né libero, né
uomo né donna, ma tutti siamo uno in Cristo Gesù” (Gal 3, 28). “Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi; state saldi e non
lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù” (Gal 5, 1).
Erano tra l’altro gli anni della contestazione, 1968-1969.
Quelle lezioni segnarono per me un decisivo cambiamento di
vita, un’esperienza di liberazione interiore più inebriante perfino di quella
che veniva sventolata nelle strade e nelle piazze. Mi sentii un "uomo nuovo", proprio
come dice S. Paolo. Un uomo finalmente libero.
Quando misi piede per la prima volta da giovane insegnante in una
scuola, mi trovai in una bolgia dantesca. Quella degli ignavi.
Gli ignavi erano quei giovanotti e signorine che avevano deciso di fare assemblea di classe spontanea, nel periodo in cui nella scuola superiore tutto, o quasi, era permesso, nei primi anni ‘70.
Gli ignavi erano quei giovanotti e signorine che avevano deciso di fare assemblea di classe spontanea, nel periodo in cui nella scuola superiore tutto, o quasi, era permesso, nei primi anni ‘70.
Rimasi scioccato. I miei bei progetti d’insegnante si
volatilizzarono all’istante. Andai verso la cattedra senza che alcuno mi
degnasse di uno sguardo. Avevano altro da fare. Passai un anno di “purgatorio”, per rimanere in tema dantesco. Tra uno sciopero, una manifestazione, un’assemblea, un’occupazione e quant’altro, passai più
tempo nella stanza-bunker del preside e nella sala insegnanti, che nelle mie
aule scolastiche.
Avevo sempre desiderato insegnare, era una vocazione. Alla
fine di quell’annus horribilis ero giunto alla decisione di non ripresentare mai più domanda in Provveditorato (ero precario, ovviamente).
Non sapevo però come dirlo a mia madre: in casa entrava il
mio discreto stipendio, i miei ne avevano bisogno, ed erano orgogliosi di avere
un “professore”, e io stesso un po’ mi dispiacevo di dover lasciare l’insegnamento
nel quale, fino a un anno prima, credevo fermamente.
Mia madre mi vide giù di corda e un giorno mi disse: “Che hai? Non ti senti bene? Ti vedo un po’ abbattuto.” Io mi feci coraggio e le
dissi con grande amarezza: “Mamma, non mi sento di tornare a scuola; mi
rimane troppo faticosa. Mi dispiace per lo stipendio.”
Mi aspettavo che mia madre dicesse qualcosa come: “Su su,
non ti scoraggiare, prova ancora, sei capace; e i soldi sono
necessari...”
Immaginandomi una risposta del genere, avevo già preparato la mia: “No, non me la sento. Non ci torno assolutamente!”
Immaginandomi una risposta del genere, avevo già preparato la mia: “No, non me la sento. Non ci torno assolutamente!”
Mia madre mi guardò e mi disse: “Senti. Prima si
faceva senza il tuo stipendio; e ora faremo senza il tuo stipendio. Se non vuoi tornare a scuola, non ci tornare!”
Mi sentii sollevato. Anzi, sentii dentro di me una forza
tale, del tutto sconosciuta fino ad allora, che mi fece tornare in me stesso e mi tolse ogni dubbio. In quel momento, quelle inaspettate e ispirate
parole mi fecero capire cosa dovevo fare: andare in Provveditorato e presentare
la domanda di incarico.
A ottobre ritornai a scuola con un altro spirito, uno spirito
rinnovato: “Ragazzi! qui si viene per studiare. Se non ne avete voglia, quella
è la porta!”
Passai un anno bellissimo. E dopo quello, tanti altri, fino
alla pensione. Prima della Fornero...
Uno dei doni dello Spirito Santo è il consiglio. In quel
pomeriggio d’estate del 1975 un consiglio ispirato di mia madre mi ha “salvato”
la vita (se non altro scolastica).
Anche per questo mi piace ascoltare il mirabile "Cum Sancto Spiritu", finale del Gloria XII di Antonio Vivaldi.
Meravigliosa mamma!
RispondiEliminaCon il suo amore è stata canale di Dio.
Leggendo, mi è venuta al cuore la visitazione.
Grazie Spirito Santo.
Ho avuto una grande fortuna, ma sarebbe meglio dire, una grande grazia: una mamma con una sapienza interiore (aveva fatto solo la III elementare) così profonda che mi lasciava stupito. Ho imparato più da lei, che da tutti i libri... ;-)
EliminaDavvero lo Spirito Santo aveva trovato in lei, umile donna del popolo, un luogo dove posarsi :-)
Grazie Terry per le tue parole :-)
Grazie a te.
EliminaAnche questa risposta arricchisce di bellezza il post e ne dona a chi legge.
❤
Vedo solo ora questo bellissimo post...
RispondiEliminaGrazie, Antonio, di aver condiviso - oltre allo splendido brano di Vivaldi - la tua esperienza!
Anche se per me, nella mia cittadina di provincia, i primi approcci all'insegnamento sono stati positivi, ho avuto però un "annus horribilis" da supplente in una scuola vicina alla grande città ed ero stata tentata come te di piantare lì l'insegnamento !!!
Poi l'anno successivo ho avuto la nomina ed è cambiato tutto!!!
In ogni caso, benedetta la tua mamma!!!
Un abbraccio e grazie!!!
Vedo solo ora il tuo commento, carissima Annamaria.
RispondiEliminaQuasi due vite (scolastiche) parallele. Plutarco sorriderà...
Grazie di questo tuo bellissimo commento!