Sono uno che ricerca la verità e che non si accontenta di wikipedia.
Se dici che la verità non esiste, sbagli, perché ne hai già affermata una.
Se poi dici che la ricerca della verità non ti interessa, allora non te la prendere troppo quando qualcuno ti vuole ingannare.
“Quando si smette di credere a Dio, si comincia a credere a
tutto.”
La verità di questa affermazione, attribuita a Gilbert Keith
Chesterton, appare in tutta la sua evidenza nel giorno di Halloween, il giorno
delle zucche e dei fantasmi.
Nelle scuola della laica Europa si vorrebbe togliere il
Crocifisso, il Presepe e perfino l’Albero di Natale. In compenso
nessuno sembra abbia niente da ridire se nel giorno odierno si preparano zucche
vuote in forma di teschi e si fanno recite e spettacolini horror in loro onore.
La sagra e il trionfo del mostruoso, come se la realtà non
lo sia già abbastanza di suo.
Qualche anno fa non davo tanto peso a questa insulsa “americanata”.
Pensavo che in Italia, popolo intelligente e di buon gusto per eccellenza,
sarebbe scomparsa in breve tempo per manifesta stupidità.
Non è stato così, purtroppo. Piccoli cretini crescono...
Quando si perdono valori fondamentali, e la fede in Dio è il
primo di questi, allora si torna ad adorare il sole, la luna, le stelle... e le
cucurbitacee.
E così il mondo laico moderno, orgogliosamente scientista ,
sta ricadendo nelle pratiche più assurde, già ridicolizzate da S. Paolo, nella
Lettera ai Romani (1, 21-23):
“Gli uomini si sono perduti nei loro vani ragionamenti e la
loro mente si è ottenebrata. Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati
stolti e hanno scambiato la gloria del Dio incorruttibile con un’immagine e una
figura di uomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi e di rettili”.
Alle zucche S. Paolo non ci pensava. Era troppo anche per il mondo pagano.
In questa giornata della Vigilia dei Santi (Halloween
significa proprio questo, etimologicamente) devo anche registrare, oltre a tristissime
notizie di devastanti uragani e disastrosi temporali, una buona notizia riguardante la mia città di Arezzo.
Nel riordino e nella drastica riduzione delle province
italiane, da 86 a 51, quella di Arezzo, pienamente in linea con i parametri governativi del
riordino, si è “salvata”.
Solo un aretino può capire la gioia di non finire con Siena,
come si paventava.
E io sono un aretino...
Lo stesso, in senso contrario, avranno pensato i senesi.
Buona Festa dei Santi a tutti, compresi i cugini senesi, ovviamente!
Solo un mondo che aspira alla bellezza suprema può produrre
una musica di una bellezza suprema.
Il Lago dei Cigni (1877) di Pyotr Tchaikovskij è un esempio di
questa bellezza suprema.
Trattandosi di un balletto, e per di più con il riferimento
ai cigni, si potrebbe pensare a prima
vista a qualcosa di leggiadro, di incantevole, e di leggero.
In realtà si tratta di una suite molto più densa; è l'eterna lotta tra il bene e il male,
tra l’amore e l’odio, tra la purezza di cuore e la malizia diabolica.
Ma alla fine il male sarà vinto dall’amore totale di
Siegfried per Odette, e i cigni del lago torneranno ad essere le bellissime
fanciulle che un incantesimo del malvagio Rothbart teneva imprigionate.
Il cosiddetto “tema del Fato”, con la sua fascinosa melodia in Si minore, attraversa come un vero leitmotiv tutta l'opera; ma nella scena
finale si trasforma, modulandosi, in un luminoso Si maggiore.
Il fato è vinto. La bellezza e l’amore hanno ancora una
volta trionfato.
È noto che il finale del balletto ha avuto numerose varianti.
Quella offerta nel video è un vero e proprio "happy end". In realtà le altre
varianti parlano della morte dei due innamorati.
Ma si tratta sempre di vittoria. Con la morte di Siegfried
infatti viene rotto l’incantesimo di Rothbart.
L’amore dei due giovani trova la sua realizzazione
in una realtà trasfigurata.
Era questo il messaggio che il grande musicista russo voleva donarci.
Solo l'amore, quello vero, salverà il lago del mondo dai suoi tristi incantesimi.
Presentiamo il video della scena finale dell'opera, con il tema del Fato.
Coreografie di Ivanov, Petipa e Gorskij, Balletto dell'Opera di Kiev.Teatro Carlo Felice (Genova). Marzo 2011.
In questi giorni di fine ottobre si ricorda la Rivoluzione
Russa del 1917.
Ogni anno di questi tempi mi piace soffermarmi un po’ da
quelle parti.
Non posso negarlo. La storia della Russia mi piace. Anzi,
per essere più precisi, mi affascina, mi ha sempre affascinato.
Neppure l’immane disastro della dittatura sovietica è
riuscito a cancellare in me questo amore viscerale.
Dico subito il perché.
Io penso che nessun popolo o nazione o stato abbia una
storia paragonabile a quella russa. Forse solo l’antica Roma può vantare il
primato, dallaquale del resto la Russia ha
ereditato sia il simbolo dell’aquila imperiale, sia il nome del capo supremo: Caesar
(Cesare), Csar, Zar.
La storia russa mi colpisce per la sua immane grandezza, in
ogni suo aspetto, nel bene e nel male. Tutto nella Russia appare spropositato, quasi
“senza misura”.
Immenso è il territorio di cui parliamo, 17 milioni di Km2
(55 volte l’Italia), il più grande del
mondo, che copre ben 11 fusi orari (in realtà 12). Quando sorge il sole a
Vladivostok, sull’Oceano Pacifico (!), nella parte più occidentale del paese (Kaliningrad,
in Europa) siamo ancora al tramonto del sole del giorno precedente.
Con questa sequenza di ore, il capodanno è festeggiato 11
volte, e quanto scocca la mezzanotte nella parte più orientale (la Kanciacca), a
Mosca ad esempio sono ancora le 15 dell’anno vecchio.
La Transiberiana, costruita dagli Zar, ha un percorso di
oltre 9 mila km, ancor oggi la ferrovia più lunga del mondo.
Negli inverni siberiani si sono acclimatati villaggi e intere
città (citerò solo Tomtor, Jakutsk, Ojmjakon) con temperature
che scendono anche sotto i –60 e perfino i –70 gradi centigradi. Mi fa freddo
solo a scriverle, queste cose!
Non essendoci catene montuose significative (tranne quella
modesta degli Urali e i monti siberiani sui confini), gli orizzonti sono
praticamente illimitati, infiniti.
Lunghissimi i fiumi: il Volga con i suoi 3530 km è il più
lungo d’Europa; l’ Ob, il Jenissej e la Lena con i loro 4000 e passa km fanno a
gara con i più lunghi del mondo. Immensi
i suoi laghi (Ladoga, Onega, Baikal), ed uno ha le dimensioni di un mare: il Mar Caspio,
che con i suoi 371.000 km2 è il più grande del mondo e supera in
estensione da solo l’intera Italia.
Si potrebbe continuare a lungo con queste note esteriori. Ma
in questi sterminati territori si sono svolte, per dirla con il Manzoni, “luttuose
traggedie d’horrori, e scene di malvaggità grandiosa, con intermezzi d’imprese
virtuose e buontà angeliche, opposte alle operationi diaboliche” (I promessi sposi, Introduzione).
La Russia, anzi, la Santa Russia, ha fermato i Tartari con
Ivan il Terribile (bisognava essere proprio “terribili” per fermarli), salvando
tutto l’Occidente cristiano da Nord-Est.
Ha fermato Napoleone, che nessuna coalizione di nazioni
sembrava fermare; lo ha fermato, come dice Tolstoj in Guerra e Pace, nella sua arroganza di
pensare che fosse giusto tutto ciò che faceva, invece di fare tutto ciò che era giusto. E Napoleone aveva invaso contro ogni diritto internazionale la Russia
allora neutrale e in pace.
Ha fermato Hitler nella sua folle avanzata per la conquista
del pianeta, con l’eroico martirio di milioni di soldati.
Al tempo stesso, quella medesima Russia volle dare compimento
ad una tragica utopia egalitaria, frutto del pensiero di uomini “ad una sola
dimensione”, quella materialista. La Santa Russia fu sanguinosamente trasformata in uno Stato senza
Dio, senza Chiesa, senza Religione, senza un passato. E senza voci di dissenso: un "pensiero
unico", quello del marxismo-leninismo.
Così, quella Russia che aveva salvato l’occidente dai
Tartari, si è presentata in Occidente col volto dei “nuovi tartari”; non a
cavallo, ma con i carri armati: in
Ungheria, in Cecoslovacchia, in Polonia...
Fu quello il tragico inizio della fine dell’utopia comunista
sovietica e l’inizio di una “primavera di popoli”; compreso quello russo, che
deve ancora ritrovare il senso e la dignità della sua storia umile e grandiosa.
Mi vengono in mente le parole di Solgenitzin: “Senza quell’Uomo
giusto non può sussistere né un villaggio, né una città, né il mondo intero” (La casa di Matriona). Non è difficile
capire a chi si riferiva il grande dissidente cristiano.
Così come ugualmente affascinanti e profetiche risuonano le
parole di Dostoevskij: “La bellezza salverà il mondo”. E si riferiva non solo
alla bellezza artistica, ma soprattutto alla bellezza spirituale e morale di
Cristo.
Notissima (ma forse poco letta) la grande letteratura russa
dell’800. Quella del 900 non le è paragonabile.
Ma meno conosciuta ancora, forse per molti, è la nascita della musica
russa moderna. Tutti conosciamo i grandi compositori di fine 800 e del 900:
in particolare Rimskij-Korsakov, Tchaikovskij, Rachmaninov, Prokovief,
Shostakovic...
Tutto è iniziato però con Glinka, nel 1836 a S. Pietroburgo.
Fino ad allora non esisteva una musica classica russa. Alla corte degli zar
venivano chiamati compositori italiani, francesi, austriaci, tedeschi. Era
quella la musica che contava e che piaceva.
Michail Glinka (1804-1857), amico dei compositori italiani,
francesi e tedeschi, volle dare inizio ad una musica che non fosse solo
imitazione di questi, ma che prendesse spunto e significato dalla tradizione
russa, religiosa e civile.
Nasce così la prima vera e grande opera russa: “Una vita per
lo Zar”, nel 1836. Dopo quest’opera ne vennero altre, ma soprattutto fu di
stimolo e di esempio ad altri musicisti che continuarono e portarono a
compimento questa grande avventura: dare alla Russia una musica propria.
Fu soprattutto Balakirev e il suo “Gruppo dei Cinque” (Cui, Borodin, Mussorgskij, Rimskij-Korsakov, e ovviamente Balakirev) che nella seconda metà dell’800 fecero rifiorire l’arte
musicale nell’impero degli Zar.
Così possiamo dire che tutti i più grandi musicisti russi sono eredi di
Balakirev e prima ancora di Michail Glinka.
I bolscevichi, nel 1918, sterminarono la famiglia dello Zar,
compresi i membri più giovani, tra cui il tredicenne Aleksej, malato. Così, tragicamente, alla maniera russa, finì la dinastia
dei Romanov.
Con il canto finale dell'opera, «Славься, славься, святая Русь!» (Gloria, gloria, Santa Russia!), vogliamo
onorare anche l’ultimo Zar di tutte le Russie, Nicola II, giustiziato ingiustamente.
“Una vita per lo Zar” era stata dedicata da Glinka allo Zar regnante, Nicola I.
“Andate in tutto il mondo, predicate il Vangelo ad ogni creatura, battezzate nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”.
Nella Giornata Missionaria Mondiale, che oggi la Chiesa Cattolica celebra, queste parole di Gesù risuonano in modo ancor più vigoroso.
Ogni cristiano è per sua natura un testimone della verità, la pienezza della verità rivelata da Cristo alle genti.
La Chiesa di Cristo è “apostolica”, cioè missionaria (apostolo significa inviato).
Per questo fin dagli inizi la Chiesa si diffuse ovunque, anche al di fuori dell’impero romano, nel mondo “barbarico”, per portare il Vangelo di Cristo.
“Non c’è più né giudeo né greco, né schiavo né libero, né uomo né donna, ma tutti siete uno in Cristo” (Paolo ai Galati 3, 28). Vengono minati così alla radice ogni discriminazione sociale, ogni differenza di razza e di popolo, ogni barriera sociale, ogni pregiudizio ideologico, che da sempre avevano caratterizzato l’umanità.
E fin dall’inizio questo annuncio “rivoluzionario” ha trovato straordinaria accoglienza e feroci persecutori.
Il martirio è la suprema testimonianza di amore a Cristo e all’umanità. Di fronte al carnefice il vero cristiano sa rinunciare alla propria vita piuttosto che tradire la verità di Dio e l’amore per i fratelli.
Il martire è il “somigliantissimo a Cristo”; e la diffusione del Vangelo nel mondo è sempre stata accompagnata dal martirio di innumerevoli testimoni di Cristo crocifisso e risorto.
Le persecuzioni contro la fede cristiana continuano purtroppo ancor oggi in moltissime parti del mondo. Sembra di essere tornati al tempo dei “cristiani ai leoni”, dell’impero romano. La verità di Cristo e il suo messaggio di liberazione dà fastidio a molti, evidentemente.
Oggi il Papa ha canonizzato, insieme ad altri sei santi, una donna algonchina, Kateri Tekakwitha, la prima santa nativa nordamericana, morta in Canada a 24 anni nel 1680.
Per questo motivo vogliamo onorare i missionari martiri di ogni tempo e di ogni luogo con il ricordo dei “Martiri Canadesi”, cioè dei primi otto missionari gesuiti che portarono l’annuncio evangelico tra gli Uroni, gli Algonchini e gli Irochesi, nell’attuale territorio del Québec.
Li ricordiamo con un breve spezzone del film “Black Robe” (1991, in Italia “Manto Nero”), che narra le vicende romanzate di questa missione.
Il film risente fortemente di una ideologia laicista, che fa apparire gli eroici evangelizzatori gesuiti (che furono poi tutti massacrati), quasi come dei “conquistadores”, e gli Irochesi quasi come dei filosofi illuministi...
Tuttavia la narrazione asciutta, dura, senza retorica, è senz’altro apprezzabile.
Molto suggestiva la scena finale, quella che proponiamo, in cui il protagonista, Padre Laforgue (detto “Manto Nero” dai nativi per il suo abito), dopo ogni genere di prove - compresa la tortura - battezza una tribù di Uroni, nel 1643.
Nella didascalia finale si dice che, 15 anni dopo questa conversione, gli Uroni furono sterminati dagli Irochesi e i Gesuiti abbandonarono la missione.
Non si ricorda neppure l’uccisione degli evangelizzatori, i "Martiri Canadesi”, quelli della storia vera, il grande e geniale P. Jean de Brébeuf e i suoi compagni.
Un lapsus freudiano del regista australiano Bruce Beresford o una censura della verità storica?
Giudicate voi.
Nella parte finale del dialogo
Capo tribù: "Do you love us?" (Ci vuoi bene?)
Padre Laforgue: Yes" (Sì)
Capo tribù: "Then baptize us" (Allora battezzaci)
Il canto del "Libera me Domine", che accompagna la scena finale, è dell'autore della colonna sonora, Georges Delerue (1925-1992).
È sempre un gran piacere una vittoria della nazionale azzurra di calcio.
Ma quando in particolare batte i danesi (e gli svedesi) trovo un motivo in più.
Questi signori hanno sempre da dare lezioni di vita a tutti: credono di essere i più civili, i più moderni, i più democratici, i più verdi... insomma, i più.
Sarà... ma nel campo di calcio picchiano come fabbri, scalciano come muli e ne buscano sempre come somari.
Il 3-1 di ieri sera, 16 ottobre, è la giusta distanza tra la presunzione di questi "gentiluomini" (esperti di "biscotti", ricordate quello del 2004?) e il carattere irriverente e fiero della pedestre Italia.
Tre reti che sono una lezione di football e di creatività: tacco di SuperMario per la rasoiata micidiale di Montolivo, cross di Pirlo e incornata fulminea di De Rossi, ri-cross pennellato di Pirlo e tocco beffardo di un Balotelli ancor più SuperMario.
Mi dispiace per Kierkegaard, il danese che più ammiro (non è un calciatore però), ma aveva ragione Marcello nell’Amleto: c’è del marcio in Danimarca.
Almeno, nella sua squadra di calcio, che rimarrà a casa ai prossimi mondiali del Brasile, nel 2014.
L'Italia invece ha già staccato il biglietto. Di prima (della) classe.
Nella galassia dei gruppi rock degli ultimi decenni, la band
svedese degli “Europe” non è certo tra le più famose, ma ha legato il suo nome ad
un brano indimenticabile: “The Final Countdown”.
Benché scritto qualche anno prima da Joey Tempest (nel 1982), venne
pubblicato nell’album omonimo nel 1986, ed ottenne un successo planetario.
Tutti lo abbiamo nelle orecchie, anche per le innumerevoli occasioni in cui è
stato e viene usato: film, spot pubblicitari, cover, suonerie, notte di capodanno...
In certo senso quel disco del gruppo hard/heavy svedese (!) può
rappresentare un’intera epoca, quella della fine del secolo scorso.
Una musica grandiosa e solenne, pur nella forma dell’hard
rock, che apre a prospettive nuove, anche se per certi aspetti misteriose.
Era comunque il “conto
alla rovescia” anche per un secolo e unmillennio che volgevano al termine, e un balzo in avanti dell’umanità
verso mondi inesplorati.
Dedichiamo questo canto al Nobel per la Pace attribuito all’Unione
Europea.
Nel segno della speranza.
Un conto alla rovescia per la definitiva ripresa.
The Final
Countdown
We're
leaving together
But still it's farewell
And maybe we'll come back,
To Earth, who can tell?
I guess there's no one to blame
We're leaving ground
Will things ever be the same again?
It's the Final Countdown...
We're heading for Venus and still we stand tall
'Cause maybe they've seen us and welcome us all
With so many light years to go and things to be found
I'm sure that we'll all miss her so
It's the Final Countdown
Il conto
alla rovescia finale
Stiamo partendo insieme
ma è sempre un addio
e forse torneremo sulla Terra,
chi può dirlo?
Penso che non si possa incolpare nessuno
stiamo lasciando il suolo;
le cose potranno mai
essere di nuovo le stesse?
È il conto alla rovescia finale...
Ci stiamo dirigendo verso Venere
e ancora stiamo in piedi
perché forse ci hanno visto
e ci hanno dato il benvenuto;
con così tanti anni luce da percorrere
e cose da trovare
sono sicuro che ci mancherà molto...
Il Concilio Ecumenico Vaticano II venne aperto esattamente 50 anni fa dal Beato Giovanni XXIII, l’11 ottobre 1962.
Fu un avvenimento che ha cambiato la storia della Chiesa e del mondo contemporaneo. Venne prima della contestazione giovanile e del 68. Anzi, in certo senso, li preparò.
Un vento di rinnovamento, il vento dello Spirito Santo, soffiò gagliardo durante i tre anni del Concilio, come nel giorno della Pentecoste, e da allora la Chiesa ha iniziato un cammino di profondo rinnovamento.
Un cammino che a 50 anni di distanza deve continuare con coraggio e con tenacia, perché il lieto messaggio di Cristo giunga in tutta la sua forza liberante e in tutto il suo fascino, sia dentro che fuori la Chiesa.
Per questo proprio oggi è iniziato “l’Anno della Fede”, per volontà di Papa Benedetto XVI, che fu tra l’altro il più giovane partecipante a quella memorabile assise: il teologo Joseph Ratzinger aveva 35 anni.
Oggi non mi fermo a parlare dei punti qualificanti del Concilio. Lo farò in un prossimo post.
Oggi, anzi stanotte, voglio solo ricordare l’ immensa gioia per quell’evento memorabile, per quella rinnovata Pentecoste che io (e molti altri ovviamente) abbiamo vissuto da giovani pieni di speranze.
Una gioia che voglio esprimere con il Magnificat, il canto di esultanza di Maria per le grandi opere di Dio.
La musica e il testo di questo bel canto (un adattamento del Vangelo di Luca, 1, 46-55) sono di Mauro Goia.
Dall’album “Spalancate le porte a Cristo”, Elledici-Multimedia, Leumann, 2000.
Spesso il mese di ottobre riserva bel tempo stabile, la classica “ottobrata”.
Anche quest’anno finora è stato così: un’ottobrata in piena regola; sole splendente, temperature sopra la media stagionale, autunno in licenza.
Complice anche il caro benzina, con questo tempo molta gente se ne va in bicicletta, a piedi, al trotto, al galoppo, invadendo e occupando le carreggiate, mentre guarda con occhi di sfida i nemici con le quattro ruote...
Anch’io ne approfitto per farmi delle belle passeggiate in collina, all’aria aperta, tra campi e boschi.
Se poi torno con qualche fungo in un sacchetto (per fungo intendo rigorosamente il porcino) e un pieno di ossigeno nei polmoni, è tutto ben di Dio.
Bisogna festeggiare questa magnifica ottobrata con una musica “solare”, come è logico.
Abbiamo già postato Vivaldi. Mi pare opportuno perciò ricorrere a Gioacchino Rossini.
Il meraviglioso finale del “Guglielmo Tell” è ciò che ci vuole.
Non solo è splendida la musica, ma anche le parole sono assai significative: “Tutto cangia, il ciel s’abbella, l’aria è pura, il dì raggiante, la natura è lieta anch’ella...”
Il Guglielmo Tell è l’ultima opera di Rossini, del 1829. In questi pochi minuti finali l’artista raggiunge la perfezione, con quell'ascensionale crescendo "rossiniano" che ha del miracoloso.
Forse per questo il genio di Pesaro, subito dopo, mise da parte penna e carta pentagrammata e si prese un lungo riposo.
Tornerà, qualche decennio dopo, a comporre un altro tipo di musica, da camera e soprattutto sacra; in particolare lo “Stabat Mater” e la “Petite Messe Solennelle”, due mirabili capolavori.
Dopo aver composto per la gloria terrena, Rossini voleva acquisire qualche merito anche in alto.
Riuscendoci appieno.
Nel finale del "Guglielmo Tell" molti riconosceranno, nella voce dell'orchestra intrecciata con quella dei cantanti, la musica che ha costituito per tre decenni la sigla iniziale dei programmi della RAI-TV italiana.
Al tepore di giornate ancora luminose, si oppone il
fresco di nottate sempre più lunghe; il lento decadere della natura è accompagnato
dalla stupenda produzione di uva, olive, castagne; e non dimentichiamo le
melagrane e i kaki!
Il bosco se ne va verso lo squallore invernale tra foglie che
cambiano colore e che cadono e funghi che spuntano vivaci e (quelli migliori)
nascosti.
Stagione di chiaroscuri, di luci e di ombre, di vita e di
appressamento alla morte (come direbbe Leopardi).
“Ahi son fumo quaggiù l’ore serene!
Un momento è letizia, e ’l pianto dura.
Ahi la tema è saggezza, error la spene.
Ecco imbrunir la notte, e farsi scura
la gran faccia del ciel ch’era sì bella,
e la dolcezza in cor farsi paura.” (G. Leopardi, Appressamento della morte, I, 28-33).
Si può esprimere questa stagione con la musica
di Antonio Vivaldi (1678-1741).
Ma non con una delle sue Quattro Stagioni (sarebbe troppo
scontato!), bensì con il Concerto in Sol Minore per 2 Violoncelli, Archi e
Basso Continuo, RV 531, nei tre classici movimenti codificati proprio da Vivaldi: Allegro-Adagio-Allegro.
Il protagonista del concerto è la voce del violoncello: baritonale, scura
e a prima vista (anzi, a primo udito) un po’ lamentosa. In realtà è una voce
calda, vibrante, capace di slanci improvvisi e di raffinate sorprese. Una “sintesi degli opposti”,
per dirla con Hegel.
Come l’autunno.
Kateryna Bragina e Stéphane Tétreault (15 anni), violoncelli solisti
In questi giorni chi segue il calendario cristiano ha
festeggiato gli Arcangeli Michele, Gabriele, Raffaele (il 29 settembre) e - due
giorni fa - gli Angeli Custodi.
La fine di settembre e l’inizio di ottobre sono sotto le ali
di questi messaggeri di Dio, che hanno il compito di vegliare su di noi e
proteggerci dalle insidie del male.
Ci sono delle bellissime preghiere, alcune molto note, con
le quali ci possiamo rivolgere a questi nostri potenti alleati celesti, per
ottenere il loro aiuto.
Ma non mi dispiace ora ascoltare la musica “hard and heavy”
degli Scorpions, che nel 1990 dedicarono l’ultimo branodel loro storico album “Crazy World” ad una
invocazione laico-religiosa: “Send me an Angel”, mandami un Angelo.
Era un momento di epocali cambiamenti: il muro di Berlino
era caduto, l’impero sovietico in piena crisi. Il gruppo tedesco hard/heavy degli
Scorpions divenne un po’ il simbolo del rinnovamento e della speranza, in
particolare con un altro brano dello stesso album: Wind of change, vento di
cambiamento.
C’era allora bisogno degli angeli, per guidare il processo
di riunificazione della Germania e portare a termine pacificamente il tracollo dell’impero
sovietico, angeli che –come fa capire la canzone- sono radicati nel nostro
cuore e nella nostra volontà.
Anche oggi c’è bisogno più che mai delle schiere angeliche,
per disperdere ai quattro venti gli angeli del male, in un mondo che sembra aver
perso ogni orientamento.
Se arriverà l’angelo del Signore, tornerà a risplendere la “stella del
mattino” (morning star) sopra un mondo
rinnovato, e giungeremo alla desiderata “terra promessa” (the promised land).
Anche l’heavy metal e l’hard rock, in fondo, hanno un’anima.
Bellissima ballata.
Send Me An Angel
The wise
man said just walk this way
To the dawn of the light
The wind will blow into your face
As the years pass you by
Hear this voice from deep inside
It's the call of your heart
Close your eyes and your will find
the passage out of the dark
Here I am
Will you send me an angel
Here I am
In the land of the morning star
The wise man said just find your place
In the eye of the storm
Seek the roses along the way.
Just beware of the thorns
Here I am
Will you send me an angel
Here I am
In the land of the morning star
The wise man said just raise your hand
And reach out for the spell
Find the door to the promised land
Just believe in yourself
Hear this voice from deep inside
It's the call of your heart
Close your eyes and you will find
the way out of the dark
Here I am
Will you send me an angel
Here I am
In the land of the morning star.
Mandami Un Angelo
Il saggio disse: percorri questa strada
verso l'alba della luce
Il vento soffierà sul tuo viso
Mentre gli anni passano
Ascolta questa voce che viene dal profondo
E' il richiamo del tuo cuore
Chiudi gli occhi e troverai
il varco tra le tenebre
Sono qui
Mi manderai un angelo?
Sono qui
Nella terra della Stella del mattino
Il saggio disse: trova il tuo posto
Nell'occhio della tempesta
Cerca le rose lungo la strada
Ma stai attento alle spine
Sono qui
Mi manderai un angelo?
Sono qui
Nella terra della Stella del mattino
Il saggio disse: Alza la tua mano
e stendila per afferrare l'incantesimo
Trova la porta per la Terra promessa
Semplicemente credi in te
Ascolta questa voce che sale dal profondo
E' il richiamo del tuo cuore
Chiudi gli occhi e troverai
Il varco tra le tenebre
Sono qui
Mi manderai un angelo?
Sono qui
Nella terra della Stella del mattino.