Sono uno che ricerca la verità e che non si accontenta di wikipedia.
Se dici che la verità non esiste, sbagli, perché ne hai già affermata una.
Se poi dici che la ricerca della verità non ti interessa, allora non te la prendere troppo quando qualcuno ti vuole ingannare.
Eppure il compositore e pianista statunitense negli anni 70-80 ha avuto una grandissima notorietà e le sue musiche stazionavano abitualmente in cima alle classifiche mondiali.
Grandissimo artista, anche se oggi sembra dimenticato e quasi “scomparso” dalla scena musicale.
Basterà che io posti “Sensitive and delicate” del 1979 per ricordarsi subito di lui e comprenderne il valore.
In un periodo in cui dominava il rock, in tutte le salse, Schlaks e il francecse Clayderman con il suono del pianoforte ci facevano presente che esisteva anche un’altra musica, dolce, appassionata, sentimentale quanto basta, e soprattutto bella.
Gustiamoci questa celebre composizione di Schlaks, le cui note sembrano scandire con nostalgia l’anno che se ne va.
Ci sono delle canzoni che hanno segnato un’epoca. E solo queste meritano di essere postate quando finisce un anno, e avvertiamo la tristezza per il tempo che passa, compensata un po' dall'euforia per un futuro più promettente.
Riproporre queste canzoni ci fa tornare indietro nel tempo; anzi, hanno la potenza di fermarlo, come per incantesimo.
Per pochi minuti ci ritroviamo fuori dal tempo e dallo spazio; in una dimensione che solo la bellezza, di qualunque tipo, riesce a creare.
È ciò che riescono a fare i Queen con “I want it all”, e Freddie Mercury con la sua straordinaria voce.
Il tempo si è fermato all’anno 1989.
I want it all
I want it all, I want it all, I want it all, and I want it now
Adventure seeker on an empty street
Just an alley creeper, light on his feet
A young fighter screaming, with no time for doubt
With the pain and anger can't see a way out
It ain't much I'm asking, I heard him say
Gotta find me a future move out of my way
I want it all, I want it all, I want it all, and I want it now
I want it all, I want it all, I want it all, and I want it now
Listen all you people, come gather round
I gotta get me a game plan, gotta shake you to the ground
But just give me, huh, what I know is mine
People do you hear me, just gimme the sign
It ain't much I'm asking, if you want the truth
Here's to the future for the dreams of youth
I want it all (give it all - I want it all)
I want it all (yeah)
I want it all and I want it now
I want it all (yes I want it all)
I want it all (hey)
I want it all and I want it now
I'm a man with a one track mind
So much to do in one lifetime (people do you hear me)
Not a man for compromise and where's and why's and living lies
So I'm living it all, yes I'm living it all
And I'm giving it all, and I'm giving it all
Oooh oh yeah yeah - ha ha ha ha ha
Yeah yeah yeah yeaaah
I want it all
It ain't much I'm asking, if you want the truth
Here's to the future
Hear the cry of youth (hear the cry of youth) (hear the cry of youth)
I want it all, I want it all, I want it all and I want it now
I want it all yeah yeah yeaaaah
I want it all, I want it all and I want it now
Oh oh oh oh oooh
And I want it - now
I want it, I want it
Ooooh ha
Voglio tutto
Voglio tutto, voglio tutto, voglio tutto, e lo voglio subito
Ricercatore di avventure per strade deserte
Solo un topo di vicolo, veloce a fuggire
Un giovane combattente che senza esitazioni grida
Di dolore e di rabbia senza vedere una via di scampo
"Non chiedo molto", gli ho sentito dire
Devo inventarmi un futuro che cambi tutta la mia vita
Voglio tutto, voglio tutto, voglio tutto, e lo voglio subito
Ascoltate gente, venite qui intorno a me
Devo preparare un piano d'azione,
devo impressionarvi
Datemi solo ciò che so che è mio
Gente mi ascoltate? Datemi un segno che ci siete
In verità non chiedo molto
al futuro per i sogni di una gioventù
Voglio tutto, voglio tutto, voglio tutto e lo voglio subito
Sono un tipo deciso
Ci sono troppe cose da fare in una vita sola
Non sono uno che cerca compromessi,
i dove e i perché
e le bugie perenni
Così vivo fino in fondo, sì vivo fino in fondo
E do tutto me stesso, e do tutto me stesso
In verità non chiedo molto
al futuro, ascoltate il grido della gioventù
Voglio tutto, voglio tutto, voglio tutto e lo voglio subito.
Tra le moderne canzoni natalizie quella di John Lennon, "Happy Christmas (War is over)", è certamente la più bella e la più famosa.
Una canzone anche “impegnata”, come del resto era lecito aspettarsi dal grande ex Beatles. In questo blog è già stata postata, per cui non mi ripeterò.
Subito dopo, di tutt’altro tenore, ma molto incisiva, viene la canzone di José Feliciano, “Feliz Navidad”.
Subito dopo, ma scritta l'anno precedente, nel 1970. Erano anni davvero creativi per la musica...
È anch’essa ormai un classico del periodo natalizio. La posto volentieri, sia per la gioia che esprime, sia perché insieme agli auguri di Natale, ormai fuori tempo massimo, ci presenta anche quelli di Buon Anno.
E questi sono quanto mai graditi!
Una singolare caratteristica della canzone è la duplice lingua in cui è scritta: lo spagnolo e l’ inglese, in un mix straordinariamente gradevole.
Due lingue così diverse, ma che si fondono alla perfezione nell’unico linguaggio della gioia di questi giorni.
Il Natale del Signore è gioia, bellezza e semplicità.
Nello spirito natalizio mi piace proporre una lauda filippina che celebra il Natale.
Le “laude filippine” portano questo nome non perché siano originarie delle isole Filippine, ma perché sono nate nell’ambiente dell’Oratorio fondato a Roma da S. Filippo Neri, nel sec. XVI.
S. Filippo Neri educò la gioventù, la più povera e abbandonata, attraverso la lode a Dio con il canto e la gioia dello stare insieme.
Per questo motivo fondò il primo Oratorio, esperienza poi ripresa e diffusa in epoca moderna da S. Giovanni Bosco e dall’Ordine salesiano.
Le laude filippine hanno la caratteristica di essere belle da ascoltare, facili da eseguire, ma non per questo banali.
Anzi, si tratta di vere e proprie opere d’arte di polifonia, composte da grandi musicisti, come lo spagnolo Francisco Soto de Langa (1534-1610), il fiorentino Giovanni Animuccia (1520-1571), e Giovanni Francesco Anerio (1567-1630), discepolo di Palestrina, tutti sacerdoti dell’Oratorio.
Filippo Neri voleva che le sue laude fossero belle, di facile esecuzione, e in italiano, perché qualsiasi coro le potesse cantare e ognuno le potesse capire.
Sono nate così le “laude filippine”, alcune delle quali sono dei piccoli capolavori d’arte: “Anime affaticate e sitibonde” (Soto), “Lodate Dio” (Animuccia), “Nell’apparir del sempiterno Sole” (Soto), e via dicendo.
È nata così anche quella forma musicale (poi divenuta assai complessa) che ha preso proprio il nome di "Oratorio".
In questo giorno di Natale, in cui all’umiltà del presepio si unisce la bellezza dell’evento salvifico del Figlio di Dio fatto uomo, festeggiamo con la gioia e la semplicità di una lauda filippina: "Nell’apparir del sempiterno sole", a tre voci pari (in questo caso femminili), di Francisco Soto de Langa (1591).
È la descrizione della nascita del vero Sole, Gesù Cristo, a mezzanotte, con uno splendore più abbagliante del sole di mezzogiorno. Siamo alla fine del 1500, e un po’ di linguaggio barocco già si fa sentire…
Ma la musica e il testo (che è del Beato P. Giovenale Ancina, oratoriano, 1545-1604) sono comunque commoventi.
E non c’è coro che non sia passato almeno una volta da queste indimenticabili note.
Alessandro Manzoni (1785-1873), il più grande prosatore italiano e grandissimo poeta, dopo aver abbandonato in gioventù il cattolicesimo ed aver aderito alla filosofia sensista e scettica dell’illuminismo francese, ritornò con un meditato cammino di conversione nel 1810 alla fede cattolica, che cambiò radicalmente la sua vita e determinò la sua arte.
Come primo segno concreto della sua conversione e della nuova ispirazione artistica sono i ben noti Inni Sacri, cinque composizioni poetiche per le principali festività dell’anno liturgico: La Risurrezione, Il nome di Maria, il Natale, La Passione, La Pentecoste.
Vennero composti tra il 1812 e il 1822.
Vogliamo riportare alcune strofe centrali de “Il Natale”, scritto nel 1813.
Bellissimo il richiamo al profeta Isaia: “Ecco ci è nato un Pargolo, ci fu largito un Figlio” (noi l’abbiamo postato due volte in musica!), e davvero mirabile nella sua semplicità la descrizione del mistero del Figlio di Dio posto "soavemente" nell’ “umil presepio”, adorato dalla Madre e dai “pastor devoti”.
Il Manzoni già in questo inno mostra la sua predilezione per gli umili e la sua presa di distanza dai potenti: “non de’ potenti volgesi alle vegliate porte, ma tra pastor devoti, al duro mondo ignoti”.
Sarà il tema dominante de I Promessi Sposi e di tutta la sua opera; ed è l’insegnamento del Vangelo, a partire proprio dal Natale.
In questo inno vedo anche un riferimento alla conversione del poeta. La fede in Cristo è stata per il Manzoni una rinascita a vita nuova: “all’uom la mano Ei porge, che si ravviva e sorge”.
Buon Natale a tutti, con le poetiche parole del Manzoni!
È la più bella cantata natalizia, dopo il “Puer natus” in gregoriano.
Qui posto il primo e il secondo movimento (che dà il titolo a tutta la cantata): “Uns ist ein Kind geboren”, è nato per noi un Bambino.
Fino a qualche decennio fa la cantata era attribuita a J. S. Bach (BWV 142), ma in realtà è del conterraneo Johann Kuhnau (1660 –1722).
È di una bellezza che mi stupisce. Anzitutto per la festosità natalizia, che sprizza da ogni frase musicale.
Poi, per la perfezione formale. La "Sinfonia" orchestrale d'inizio dà subito il tono a tutta la cantata: una gioia che trascina i cuori verso quel Bambino che "è nato per noi".
Nel secondo movimento, il più bello in assoluto degli otto che compongono la Cantata, il tema - geniale nella sua brillantezza - è intonato dai tenori; seguono i contralti, poi i bassi e infine i soprani, in un rincorrersi imitativo che dà al brano la sua principale caratteristica. La sezione strumentale (il "concerto"), inizialmente solo di sostegno alle voci, diviene protagonista nella parte centrale, mentre il coro tace; inizia poi a dialogare con il canto, e conclude da sola il brano.
Un’unica pecca, nella clip che presento. Una musica così bella meriterebbe un'esecuzione migliore...
Purtroppo non ho trovato di meglio. Fino a quest’anno, nel web, questo concerto non era neppure presente.
Le parole sono le stesse dell'inizio dell'Introito della III Messa di Natale, “Puer natus est nobis” che abbiamo postato in precedenza.
Musiche natalizie. Un po’ logore dall’uso, specialmente quando vengono legate ad un’atmosfera semplicemente festaiola o consumistica.
Intendiamoci! Come le luminarie, anche queste melodie più o meno tradizionali sono sempre benvenute, se non altro per i buoni sentimenti che ispirano.
Ma solo la presenza del festeggiato, il Figlio di Dio che si fa uomo come noi, le rende pienamente significative.
Non c’è musicista che non abbia cantato il Natale con qualche composizione.
Molte sono degli assoluti capolavori: l'VIII Concerto Grosso di Corelli, l’Oratorio di Natale di Bach, il Messia di Händel, la Cantata di J. Kuhnau “Uns ist ein Kind geboren”, per citare le più belle.
Ho una particolare predilezione per la Cantata di Kuhnau, fino a qualche decennio fa attribuita a Bach (ancora qualcuno si ostina a presentarla come opera di Bach, BWV 142).
La posterò certamente, in questi giorni, ora che nel web si tova qualche coro che la esegue. Fino a quest’anno non ce n’erano.
Ma il canto più bello è il primo di cui abbiamo notizia, e quindi il più antico, cioè l’Introito della III Messa di Natale, "Puer natus", in gregoriano.
Mille anni fa, o forse anche prima, fu composto questo stupendo introito, un vero e proprio grido di gioia e di esultanza per la nascita di questo Bambino (Puer) che ci è stato dato da Dio Padre, e che porta sulle sue spalle il comando di tutte le cose (imperium super humerum eius).
Le parole sono tratte da Isaia 9, 6; il versetto è il primo del Salmo 97/98.
La melodia, anonima come quasi tutti i canti gregoriani, è nel modo VII, chiamato da Guido Monaco "il modo angelico” per il suo andamento svettante, come si può subito notare.
Inizia con un salto di quinta (Sol-Re) sulla parola “Puer”, un intervallo eccezionale nel gregoriano, che procede generalmente per gradi congiunti o per piccoli intervalli. Questo è uno dei pochi casi in cui si ha un intervallo così grande.
È un autentico grido di esultanza, che si ripete ancora nel secondo versetto “Et Filius”.
Tutta la melodia si mantiene su livelli elevati, fino al Fa sopra il rigo del tetragramma, cioè fin quasi alla sommità dell’estensione del VII Modo (Sol-Sol), che è il più slanciato di tutti gli altri.
Il musicista che lo scelse, sapeva bene ciò che stava facendo!
Faccio presente, per coloro che non conoscono la scrittura gregoriana, che il brano è in chiave di Do, posto nel terzo rigo; quello è il punto di riferimento per riconoscere le varie note.
Faccio infine notare, come curiosità, che la parola “Euouae”, alla conclusione del "Gloria", sono le vocali di “seculorum amen”, così scritte per risparmiare spazio.
Come si sa, si cantano le vocali, e quelle riportate servono da guida al canto segnato nel tetragramma.
“Puer natus” non potrà mai diventare un canto consumistico.
Nasce dalla fede nel Figlio di Dio, è composto per esprimere la gioia della Sua presenza in mezzo a noi; la melodia è ricca di melismi che non si lasciano ingabbiare in un motivetto commerciale, e si può gustare solo se il nostro animo è in sintonia con chi l' ha composta.
Il canto non è adatto a slitte trainate da renne o a uomini vestiti di rosso, con la barba bianca...
Bisogna far posto a quel "Puer", a quel Bambino, se vogliamo davvero capire e gustare questa musica in tutta la sua bellezza.
Buon ascolto!
Puer natus est nobis,
et filius datus est nobis:
cuius imperium super humerum eius
et vocabitur nomen eius
magni consilii Angelus (Isaia 9, 6)
Cantate Domino canticum novum: quia mirabilia fecit (Ps. 97, 1).
Gloria Patri et Filio et Spiritui Sancto,
sicut erat in principio et nunc et semper
in secula seculorum. Amen.
Un Bambino è nato per noi
e un Figlio ci è stato dato,
la cui sovranità poggia sulle sue spalle,
e sarà chiamato
Angelo del buon consiglio.
Cantate al Signore un canto nuovo, perché ha compiuto meraviglie.
Gloria al Padre e al Figlio e allo Spirito Santo;
come era nel principio e ora e sempre, nei secoli dei secoli.
Stasera Rai 3 ha trasmesso “Per un pugno di dollari”, il mio film preferito.
Ovviamente me lo sono rivisto per l’ennesima volta.
Ogni volta che lo guardo, oltre alla soddisfazione di gustare un capolavoro, provo un sottile piacere per una piccola vittoria personale.
Quando uscì il film, nel 1964, la critica cinematografica dominata dai soliti intellettuali ideologizzati lo stroncò. Di fronte al neorealismo italiano ancora in voga, oppure alla cinematografia “impegnata” che stava dominando, questo western così rozzo e improbabile, e senza valori sociali, oltretutto copiatura di un film di Kurosawa, sembrò qualcosa di incomprensibile e da gettare al macero.
Io ne rimasi incantato. Non avevo mai visto né udito nulla di simile in una sala cinematografica.
Anzitutto una musica affascinante, con il suono dello scacciapensieri, le note della chitarra elettrica, addirittura il fischio, e quella tromba svettante che disegnava una linea melodica appassionata e drammatica al tempo stesso.
Poi un linguaggio ridotto ai minimi termini; una specie di ermetismo plebeo. Alla fine del film si potevano ripetere tutte le battute, alcune diventate subito proverbiali, a partire dal titolo.
E soprattutto le incredibili scene di violenza, portata in primo piano in tutta la sua crudeltà e sadismo; una crudeltà mai vista prima in quella forma così esplicita, dal massacro di Rio Bravo a quello dei Baxter, dal pestaggio bestiale del pistolero senza nome (ma Joe), alle violenze sul suo amico locandiere.
Il tocco di femminilità, dato da Marisol, aggiungeva una nota di grazia in quel mondo disumano.
Il duello finale raggiunge le vette dell’epica, non meno del duello tra Ettore e Achille, o se vogliamo, di Odisseo contro i Proci.
L’astuzia di Joe contro la ferocia di Ramon, la forza vendicatrice contro la prepotenza senza limiti, la giustizia contro il delitto.
Alla bellezza degli esametri di Omero corrisponde adeguatamente la musica di Morricone.
La gente che usciva dalla sala aveva la mia medesima impressione. Avevamo assistito non ad un film, ma ad un evento.
Oggi tutti esaltano Sergio Leone, Ennio Morricone, Clint Eastwood (tutti illustri sconosciuti allora); oltre a Gian Maria Volonté (che fu criticato per questa sua partecipazione “disimpegnata”), il quale riesce a dare il meglio di sé proprio qui, con un personaggio tanto odioso, quanto convincente.
Non solo il film ebbe un successo strepitoso, ma si rivelò come un inizio di un nuovo genere, il western all’italiana; e molto di più ancora. Il crudo realismo di Sergio Leone (come a suo tempo fece Caravaggio) è divenuto un “topos” artistico nella filmografia. Dopo quel film il cinema ha cambiato davvero vestito.
Non voglio dire che la violenza, per di più gratuita, vada bene; anzi!
Voglio solo dire che da allora ogni aspetto della realtà, anche il più crudo, è stato messo a tema.
Non sempre con la genialità di Sergio Leone.
Non posto il duello finale con il leitmotiv più noto, perché già l'ho fatto.
Presento il primo brano che appare nel film, durante lo scorrere dei titoli di testa: "Titoli", ovviamente di Ennio Morrricone, con il motivo fischiato da Alessandro Alessandroni.
Lo presento dal disco tratto dalla colonna sonora. Chi non ha avuto tra le mani questo disco, con questa mitica copertina, non può capire l'emozione che provammo quando lo vedemmo.
Sfida all’OK Corral (Gunfight at the O.K. Corral, 1957) è un film western di John Sturges che è rimasto memorabile, sia per la presenza di attori famosi come Kirk Douglas e Burt Lancaster, sia per la bella colonna sonora, sia per l'avvincente narrazione.
Da ragazzi, appassionati com’eravamo di western, con un biglietto da 50 lire si passava una serata indimenticabile. L’atteso duello all’ultimo sangue concludeva la vicenda, con l’immancabile trionfo della giustizia.
All’uscita dalla sala si fischiettava il tema della colonna sonora; le parole no, perché erano in inglese...
Oggi in parlamento abbiamo assistito a una Sfida all’OK Corral. Non c’erano Kirk Douglas e Burt Lancaster, non c’era una decente colonna sonora, ma urla e parolacce irriferibili, e non fischiettabili.
C’è stato però il duello all’ultimo sangue, pardon, voto…
Visto che è mancata del tutto la colonna sonora, ce la metto io, quella vera, quella di Dimitri Tiomkin, cantata da Frankie Laine.
Non parliamo dell’altra sfida, sanguinosa, fuori del parlamento, per le vie e nelle piazze di Roma, portata da alcune centinaia di delinquenti di professione.
Per quelli l’unica colonna sonora adatta è la sirena della polizia.
Gunfight at the OK Corral
OK Corral, OK Corral,
there the outlaw band make their final stand,
OK Corral.
Oh my dearest, one must die.
Lay down my gun or take the chance of losing you forever.
Duty calls.
My backs against the wall.
Have you no kind word to say
before I ride away, away.
Your love, your love,
I need your love,
keep the flame, let it burn
until I return from the gunfight at OK Corral.
If the Lord is my friend
we'll meet at the end
of the gunfight at OK Corral,
Gunfight at OK Corral
Boot Hill, Boot Hill,
so cold, so still,
there they lay side by side
the killers that died
in the gunfight at OK Corral.
OK Corral.
Gunfight at OK Corral.
Scontro a fuoco all’ OK Corral
OK Corral, OK Corral,
lì la banda di fuorilegge fa la sua postazione finale,
OK Corral.
Oh mio cara, si deve morire,
Depongo la mia pistola o corro il rischio di perderti per sempre.
Il dovere chiama.
Le mie spalle contro il muro.
Avete nessuna parola gentile da dire,
prima che io vada via, via?
Il tuo amore, il tuo amore,
ho bisogno del tuo amore.
Prendi la fiamma, lasciala bruciare
fino al mio ritorno dallo scontro a fuoco all’ OK Corral.
Non è un errore nella citazione del ben noto proverbio.
È invece la realtà di questa particolare giornata, caratterizzata oltre che dalla festa della Santa siracusana, anche dall’attesa meno sacra del voto di fiducia/sfiducia di domani al governo Berlusconi.
Le attese, si sa, sono sempre lunghe. Se poi si tratta di fatti importanti, il giorno dell’attesa non finisce mai.
E in effetti questo giorno anticipa un avvenimento per molti aspetti decisivo nella vita politica italiana.
Si tratta della vigilia di una battaglia vera e propria, senza effusione di sangue, ovviamente, ma che lascerà ugualmente morti e feriti (politicamente intesi!) tra i banchi del parlamento. E uno o più vincitori.
Le forze sono già schierate.
Le truppe governative faranno quadrato intorno al Cavaliere con qualche macchia e un po’ di paura, ma ancora in sella a dominare la scena.
L’esercito dell’opposizione cercherà di colpire da ogni parte, da sinistra, dal centro e perfino da destra, tentando così una manovra di aggiramento e a tenaglia, che, secondo il più celebre esperto di strategie militari, il Von Clausewitz, dà sempre i migliori risultati e la vittoria finale.
Ma tra le file dell’opposizione pare che non tutti siano così d'accordo a lanciare i loro strali verso il medesimo bersaglio. Sembra infatti che ci siano in ogni settore, vuoi a destra, vuoi al centro e finanche nell’ala sinistra, alcuni pronti ad accorciare il tiro per colpire alle spalle o nel fianco il proprio sodale.
“Tu quoque…”, dirà qualche parlamentare che conosce il latino, alla fine della pugna, colpito da fuoco amico.
Il Cavaliere ha messo in atto infatti un altro punto caro al Von Clausewitz, e prima ancora, all’Impero romano, che per combattere i numerosi popoli nemici circostanti, li metteva in contrasto tra di loro, con concessioni e donativi.
La tattica del “dìvide et ìmpera”, che ha permesso la sopravvivenza di Roma “per saecula saeculorum”.
Napoleone vinse la grande battaglia di Marengo quando già credeva di averla perduta, perché arrivò al tramonto del sole in suo soccorso una truppa di soldati che era stata tenuta lontana da una manovra avversaria. Erano già stati mandati messaggeri di vittoria a Vienna…
Lo stesso Napoleone perse a Waterloo una battaglia quasi vinta, per il motivo contrario. Era riuscito a tener separato l’esercito inglese di Wellington da quello prussiano di Blücher con un’astuta manovra; ma il ritorno in tempo delle truppe di Blücher sulla scena della battaglia permise di stringere in una morsa i “bleus”.
“La guardia muore, ma non s’arrende”, gridarono coloro che facendo quadrato intorno all’Imperatore, lo difesero strenuamente; caddero uno dopo l’altro sotto il fuoco degli inglesi.
Meno elegantemente aveva espresso la stessa idea il generale Cambronne, con il suo famoso “mot”, un francesismo che qui non voglio ripetere. Chi non lo sa, andrà a leggere wikipedia.
Domani assisteremo a una Marengo o ad una Waterloo?
Ai posteri, cioè a domani sera, l’ardua sentenza…
Una cosa è certa. Io stanotte farò come il Principe di Condé prima della battaglia di Rocroi, di manzoniana memoria.
In questa domenica, dedicata alla gioia, occorre una musica che sia quantomeno rasserenatrice.
E poiché ci avviciniamo al Natale, la musica più adatta è una “pastorale”, la musica dei pastori; qui si parla ovviamente dei pastori che vanno verso Betlemme.
Ci uniamo anche noi con loro, al suono della brillante e vezzosa Pastorale in Re minore (K 9) di Domenico Scarlatti (1685-1757), il genio napoletano del clavicembalo.
Le ben 555 sonate di Domenico Scarlatti sono un monumento di inventiva, di virtuosismo, di scintillante bellezza. Il clavicembalo, da strumento per lo più salottiero, diviene protagonista della scena musicale.
La Pastorale viene eseguita da Glenn Gould, l'impareggiabile interprete di Bach.
Ma anche Domenico Scarlatti ha qualcosa in comune con Bach.
Anzitutto l’amore per la musica clavicembalistica. Bach le ha dedicato in particolare quel capolavoro che è il “Clavicembalo ben temperato”.
E poi l’anno di nascita: il 1685. Un anno doc per la musica; oltre a Domenico Scarlatti e a J. S. Bach, è nato in quell’anno anche Händel.
Oggi, festa dell' Immacolata Concezione, offriamo a Maria Santissima una musica speciale, come si conviene alla più bella delle creature.
È una musica composta dal tedesco Georg Philipp Telemann (1681-1767), contemporaneo di Vivaldi, Bach ed Händel; quindi un personaggio che è rimasto un po' sacrificato in mezzo a questi giganti.
Eppure a suo tempo ebbe grande considerazione; e in effetti le sue composizioni, tra l'altro sterminate di numero, hanno ancora molto da dirci. Un suo concerto in Re maggiore è stato usato da Fabrizio De André per una celebre canzone (La canzone dell'amore perduto).
La musica che presentiamo è uno stupendo versetto del Magnificat in Sol maggiore, un'Aria per orchestra e tenore (Der Hungrigen fullet er).
Noi però la presentiamo in versione vocalistica, che non fa perdere molto alla bellezza dell'originale, in compenso aggiunge un tocco di virtuosismo.
Si tratta dell' Ensemble Planeta, un quartetto vocale femminile giapponese, veramente bravo.
La voce umana, quando usata adeguatamente, è sempre affascinante.
Non è giusto che stasera solo i privilegiati spettatori de La Scala di Milano ascoltino le sublimi note de La Valkiria (Die Walküre, 1870), di Richard Wagner.
Anche noi, poveri mortali, abbiamo il diritto di ascoltare almeno un brano del capolavoro wagneriano, seconda opera dell'imponente tetralogia dell'Anello del Nibelungo.
Dell'opera La Valchiria si conosce quasi unicamente la celebre "cavalcata"; in effetti è una delle immortali pagine della letteratura musicale.
Ma è così nota che basta citarla, per considerarla già eseguita.
Andiamo invece alla scena finale. Patetica, affettuosa, drammatica, possente, con chiusura in dolce diminuendo, quasi ad accompagnare - tra i bagliori di fuoco- il sonno di Brunilde.
Il dio Wotan abbandona sua figlia, la valkiria Brunilde, al suo destino per aver disobbedito alla sua volontà, spinta da generoso amore.
Brunilde è la nuova Antigone, che ha trasgredito agli ordini delle autorità per seguire la propria coscienza.
Di questo amore Wotan non può non tener conto e perciò circonda la figlia, profondamente addormentata, con un fuoco invalicabile per tutti, tranne che per quell'uomo che non sappia cos'è la paura, "un uomo più libero di un dio".
A queste parole la voce del basso-baritono, che impersona Wotan, intona in tutta la sua potenza il leit-motiv di Sigfrido.
Sarà lui il protaganista dell'opera successiva, l'uomo che non conosce la paura.
Duttile, potente, armoniosa la voce del grande baritono-basso Hans Hotter.
Non posso e non voglio credere alla morte di Yara.
Finché non sarà pronunziata la parola fine sulla vicenda, io voglio pensare Yara ancora viva, in procinto di tornare dai suoi cari.
So che l'angoscia e la disperazione sembrano chiudere ogni spiraglio di luce; per questo motivo ho scelto di postare "Il dolce suono", dalla "Lucia di Lammermoor", di Gaetano Donizetti.
Un canto di angoscia anch'esso, ma talmente bello che sembra trasformare la disperazione in un inno alla vita.
Perfetta qui la voce del soprano albanese Inva Mula.
Le "Operette Morali" di Giacomo Leopardi (1798-1837) sono un capolavoro della letteratura italiana e al tempo stesso un'amara riflessione sulla vita.
Queste 24 brevi composizioni sono scritte in forma di dialogo o di racconto, ora umoristico, ora ironico, ora argomentativo, ora fantasioso; ma sempre si concludono con l'affermazione che la vita dell'uomo sulla terra è un mistero di dolore inspiegabile.
Il tragico suicidio di Mario Monicelli mi ha fatto tornare in mente una di queste operette morali: il "Dialogo di Plotino e di Porfirio".
Il filosofo Porfirio ha deciso di togliersi la vita; venuto a conoscenza di ciò, l'amico filosofo Plotino, con una serie di argomentazioni sempre più stringenti, riesce a distoglierlo dall'insano gesto.
"Viviamo, Porfirio!" è l'accorato invito finale, un'apertura di credito nei confronti della vita, anche se faticosa.
Tutti i commentatori hanno notato che il dialogo in realtà è un monologo interiore del Leopardi stesso.
Per questo, a mio parere, la bellezza della conclusione di questa operetta consiste proprio nel fatto che viene dal travaglio interiore del non credente e pessimista Leopardi.
Nonostante tutto, la vita va affrontata a viso aperto, con coraggio, per portare a termine il proprio destino, confortati dalla compagnia delle persone care.
Riporto, nella ricercata prosa leopardiana, la bellissima perorazione finale di Plotino:
"Ora io ti prego caramente, Porfirio mio, per la memoria degli anni che fin qui è durata l’amicizia nostra, lascia cotesto pensiero; non volere esser cagione di questo gran dolore agli amici tuoi buoni, che ti amano con tutta l’anima; a me, che non ho persona più cara, né compagnia più dolce. Vogli piuttosto aiutarci a sofferire [sopportare] la vita, che così, senza altro pensiero di noi, metterci in abbandono.
Viviamo, Porfirio mio, e confortiamoci insieme: non ricusiamo di portare quella parte che il destino ci ha stabilita, dei mali della nostra specie. Sì bene attendiamo a tenerci compagnia l’un l’altro; e andiamoci incoraggiando, e dando mano e soccorso scambievolmente; per compiere nel miglior modo questa fatica della vita. La quale senza alcun fallo sarà breve.
E quando la morte verrà, allora non ci dorremo: e anche in quell’ultimo tempo gli amici e i compagni ci conforteranno: e ci rallegrerà il pensiero che, poi che saremo spenti, essi molte volte ci ricorderanno, e ci ameranno ancora".
Mi viene in mente il Leopardi "eroico" de La Ginestra...
Parliamo ancora di canto gregoriano, sia perché il periodo prenatalizio è adatto ad approfondire l'argomento del canto sacro, sia perché il gregoriano è la base della nostra musica.
Ho già scritto ieri che una delle caratteristiche del gregoriano è il suo andamento libero, che ha in sé “un ritmo più serrato di una musica rock”.
Si può subito verificare questa affermazione, perché in questi ultimi anni c’è chi ha provato a “mixare” il canto gregoriano con i ritmi della musica hip hop.
Il brano gregoriano che presentiamo è il Kyrie della Missa XI, “Orbis Factor”, risalente addirittura al sec. X.
È una melodia antichissima, bellissima, evocativa. Si chiede perdono al Signore (Kyrie eleison, Signore pietà!) e la musica ha un tono di umile supplica, piena di doloroso pathos.
È sorprendente come l’accompagnamento hip hop non disturbi affatto il canto, e il suo ritmo si adatti perfettamente all’andamento gregoriano.
Per la verità, ci sono delle notevoli forzature (ad es., il Kyrie è ridotto alle sue parti essenziali, si sentono doppie voci, anche se in dissolvenza...), per creare un’atmosfera ancor più coinvolgente.
Ma nel complesso il risultato è, a mio parere, interessante.
Vorrei far notare la differenza di fondo tra questo tentativo di “Canto gregoriano hip hop”, e la “Messa beat” degli anni ’60, di Marcello Giombini.
La Messa di Giombini (che ho avuto modo di postare) è una musica moderna, sia nel canto che nell’accompagnamento strumentale (chitarre, tastiera e percussioni).
Qui invece abbiamo l’antico canto gregoriano, “mixato” con un accompagnamento beat.
Quest’ultima operazione può andar bene come curiosità, come esperimento, ma non certo come canto liturgico.
Testimonia comunque la modernità e il fascino intramontabile del gregoriano.
Il canto gregoriano è una musica che mira all’essenziale.
Anzitutto niente strumenti; solo la voce umana, che del resto è lo strumento musicale più bello, perché naturale.
Il canto è ad una sola voce, una monodia.
E questo canto si muove senza grandi salti melodici, che sono tipici invece della musica melodrammatica; anche in questo caso il gregoriano segue per lo più l’andamento della natura, che “non fa salti”.
Come si vede, il minimo indispensabile, sotto il quale c’è solo il silenzio, che per molti aspetti si può considerare una musica interiore.
Sbaglierebbe però chi pensasse che il gregoriano sia una musica povera, elementare, noiosa.
È una musica a cui ci si deve avvicinare facendo una bella doccia di umiltà e togliendosi i tappi dalle orecchie, abituati al chiasso (anche musicale) che ci circonda.
Allora scopriamo che quella monodia così apparentemente fragile, vibra di intenso pathos; quei piccoli salti melodici sono più significativi di un “do” di petto o di un gorgheggio di soprano; quell’andamento libero del canto ha in sé un ritmo più serrato di una musica rock.
“Sobria ebbrezza” (sobria ebrietas), dice con un bellissimo ossimoro un inno liturgico, riferendosi al dono dello Spirito Santo: un’esultanza che ha in sé l’autocontrollo, il senso della misura.
In certo modo ciò è riferibile anche al canto gregoriano: una musica casta, ma ricca di sentimenti; libera nel ritmo, ma non disordinata; profondamente espressiva, ma senza intemperanze melodrammatiche.
Siamo nel tempo di Avvento. Mi pare perciò doveroso postare l’inno "Rorate caeli desuper", che è proprio un canto di Avvento. Un inno bellissimo, come ognuno può verificare ex auditu.
Al primo ascolto sembra un canto con 4 strofe più o meno uguali. In realtà hanno significative varianti, e io ne indicherò alcune come esempi.
Nel ritornello, l’invocazione “Rorate caeli” (mandate la rugiada o cieli) per chiedere la venuta del Messia è un canto che sale, e molto, fino ad un salto di quarta (la-re), per esprimere ardente desiderio. Invece alla parole “et nubes pluant Iustum” la melodia scende per significare proprio la venuta in terra del Salvatore.
Nella prima strofa, l’angoscia per la desolazione della Città Santa, è espressa da note a lungo ribattute, e in particolare dal doloroso ed espressivo inciso “Jerusalem desolata est”.
Nella seconda strofa, la confessione delle proprie colpe da parte del popolo ha il suo punto più intenso nella frase discendente “et cecidimus”, siamo caduti (tra l’altro giustamente rallentata nel ritmo dagli ottimi cantori).
Nella medesima strofa, Dio che nasconde la faccia davanti alle vergogne del suo popolo (“abscondisti faciem tuam a nobis”), è espresso con una melodia nel basso; e l'intervallo discendente di terza (la-fa) indica il netto distacco di Dio dal suo popolo.
Nella terza strofa ritorna perciò ancor più pressante l’invocazione a Dio, affinché mandi il Salvatore. Questa invocazione ha il suo acme nella frase “Et mitte” (e manda), con un salto di quarta, già presente nel ritornello - come si è detto- ma qui senza preparazione; quasi un grido, che i cantori avrebbero dovuto, a mio parere, sottolineare con un leggero ritardo (allargamento, avrebbe detto Fosco Corti), come il salto impone.
Nella quarta e ultima strofa è Dio stesso che parla al suo popolo e lo consola.
Belllissimo il doppio “Consolamini” (consolatevi). È una strofa che si muove tutta nella parte alta del tetragramma, con salti frequenti, che sono una rarità nel gregoriano, come abbiamo detto.
Ma qui si vuole esprimere a chiare note la gioia della salvezza ormai vicina.
Per coloro che non conoscono la notazione gregoriana, faccio presente che il brano è in chiave di Do, come indica la C in capo all'ultimo rigo del tetragramma.
Ed ora dimentichiamo tutto ciò che ho detto, e lasciamoci prendere dalla bellezza di questo canto accorato di trepida attesa del Salvatore.
Rorate caeli desuper
Mandate la rugiada, o cieli, dall'alto,
E le nubi piovano il Giusto.
1. Non adirarti, o Signore, non ricordarti più dell'iniquità.
Ecco, la città del Santuario è divenuta deserta,
Sion è divenuta deserta, Gerusalemme è desolata:
la casa della tua santificazione e della tua gloria,
dove i nostri padri Ti lodarono.
Mandate la rugiada, o cieli, dall'alto,
e le nubi piovano il Giusto.
2. Abbiamo peccato e siamo divenuti come gli immondi,
e siamo caduti tutti come foglie;
e le nostre iniquità ci hanno dispersi come il vento.
Hai nascosto a noi la tua faccia,
e ci hai schiacciati per mano delle nostre iniquità.
Mandate la rugiada, o cieli, dall'alto,
e le nubi piovano il Giusto.
3. Guarda, o Signore, l'afflizione del tuo popolo,
e manda Colui che sei per mandare.
Manda l'Agnello dominatore della terra,
dalla pietra del deserto al monte della figlia di Sion,
affinché Egli tolga il giogo della nostra schiavitú.
Mandate la rugiada, o cieli, dall'alto,
e le nubi piovano il Giusto.
4. Consòlati, consòlati, o popolo mio: presto verrà la tua salvezza.
Perché ti consumi nella mestizia, mentre il dolore ti ha rinnovato?