venerdì 30 settembre 2011

Sometimes I feel...




Ho sempre avuto un debole per il canto negro-spiritual e il gospel.

La generazione che ha fatto il 68 aveva tra i suoi ideali la fine delle discriminazioni razziali, e Martin Luther King era uno degli “eroi” di quella liberazione. Il suo “dream” era anche il nostro.

Uno dei segni di questa vicinanza ideale erano proprio i negro-spirituals; canzoni, anzi “songs”, come Jericho, Go down Moses, John Brown, ma anche i più dolci Deep River, Heaven e Motherless Child erano sempre... a portata di chitarra.

A me piacevano poi, oltre che per la loro bellezza e originalità assoluta, per la loro forte componente spirituale (se no, che “spirituals” sarebbero?)
Non solo rivelano una profonda fede cristiana (molti canti sono vere e proprie pagine bibliche in musica), ma invocano una liberazione non-violenta, disarmata, che a me piaceva. Come poi in effetti sostanzialmente è avvenuto. 

Ciò che sembrava impossibile negli anni 60, oggi è storia, con Barack Obama.

Tra i vari complessi di quegli anni indimenticabili ce n’era uno “interrazziale” (non era cosa frequente allora!), Les Humphries Singers, guidato dalla bella voce della giamaicana Liz Mitchell.

Da lei ascoltiamo, in questo giorno che dice addio al settembre, il dolcissimo "Matherless Child".

I “negri” si sentivano orfani e lontani da casa, non solo a motivo della loro antica schiavitù, che li aveva strappati alla patria e alla famiglia, ma anche nel senso spirituale: lontani ancora da quella casa che è il cielo, simbolo anche di libertà vera.

E in questo senso, il canto rispecchia la nostra condizione umana. Siamo tutti "lontani da casa".

Ho preferito questo video originale, del 1971, ad un altro restaurato. Qui si gusta meglio il tempo trascorso.

E quanto cammino è stato fatto...

giovedì 29 settembre 2011

S. Michele Arcangelo, ovvero Michelangelo






S. Michele Arcangelo. Oggi è la sua festa liturgica.

“Chi come Dio?” Questo è il significato del nome ebraico Michael.

È il Principe delle schiere celesti che sconfigge Satana nel nome di Dio onnipotente (Ap 12, 7).

Molti portano questo nome impegnativo. Ma ce ne sono due che gli hanno fatto davvero onore:
Michelangelo Buonarroti e Michelangelo Merisi da Caravaggio.

Nel primo caso basta il nome: Michelangelo, e si staglia davanti a noi la figura del più grande genio delle arti figurative, compresa l'architettura, secondo il concetto vasariano di raffigurazione spaziale.

Nel secondo caso il nome della persona è stato soppiantato dal nome di luogo. Ma la grandezza di Caravaggio è degna del nome (vero) che portava: Michelangelo anche lui.

Il David (1504) rappresenta alla perfezione ciò che si intende per genio. Michelangelo non si accontenta di fare una figura perfetta (il Vasari dirà ammirato: “Qui sono stati superati anche i Greci antichi”).

In realtà nella figura perfetta di David viene, in modo altrettanto perfetto, raffigurata la pagina biblica da cui l’artista trae ispirazione. Lo sguardo intenso e la fronte corrugata in un moto di sdegno ci ricordano plasticamente le parole dette da David a Golia: «Tu vieni a me con la spada, con la lancia e con l'asta. Io vengo a te nel nome del Signore degli eserciti, Dio delle schiere d'Israele, che tu hai insultato. In questo stesso giorno, il Signore ti farà cadere nelle mie mani” (1 Sam 17, 45-46).



La “Madonna dei Pellegrini” (1604) di Caravaggio è un esempio sublime di che cosa significhi invece “sermo humilis”, il linguaggio quotidiano, anche nella fede. Non siamo davanti ad un “santino” raffaellesco, né all’epicità di Michelangelo, ma alla realtà quotidiana.

Due piedi nudi sporchi in faccia a chi guarda. Uno scandalo inaudito!

Ma si tratta dei piedi di pellegrini popolani, non di nobili che viaggiano in carrozza. Bastoni da viaggio, facce raggrinzite, vene varicose, toppe nel fondo schiena dei calzoni... Eppure quei ginocchi a terra, quelle mani giunte, quei volti in preghiera fanno fare all’arte e alla fede un balzo in avanti definitivo.

E la Madre di Dio è raffigurata come una giovane mamma che ha come caratteristica sacra la pulizia del volto e dei vestiti e appena un filo di aureola, con quel suo Bambino che guarda interessato e si piega come la madre verso i due poveri oranti.

Non c’è da dar torto ai committenti che rifiutarono allora il quadro, giudicandolo poco adatto alla devozione.

Caravaggio, con un colpo d’ala, aveva portato l’arte nel futuro.

Non per niente si chiamava Michelangelo.



lunedì 26 settembre 2011

Un giudice a Berlino


 












Preceduto dal solito clima di diffidenza, se non di ostilità preconcetta, Benedetto XVI è tornato nella sua patria quasi da straniero.

Ma, come ormai ci ha abituati, ha compiuto un piccolo-grande capolavoro; non lui, ovviamente, ma lo Spirito di Dio che lo guida e lo illumina.

La diffidenza si è tramutata in calorosa accoglienza, l’ostilità in una standing ovation e il boicottaggio in bagni di folla.

Perfino i giornali più critici hanno scritto parole di apprezzamento.

Hanno colpito le sue parole, sempre alte e profonde, e il suo atteggiamento, umile e dolce, che sa chiedere perdono anche per i misfatti degli uomini di Chiesa.

Un vero padre, cioè un vero papa.

Sarà la storia a giudicare. Ma quei riferimenti alle dittature brune e rosse, che nel nome di ideologie atee hanno portato l’umanità sull’orlo del precipizio, hanno colpito nel segno, in una nazione che le ha provate entrambe.

Benedetto XVI ha aperto una riflessione anche sull' attuale ideologia, quella di matrice rigidamente positivistica, che crede di poter "creare" l’uomo senza rispettare la sua “ecologia”, cioè la sua natura oggettiva, concreta, data.

Come la natura si sta ribellando alla manipolazione umana, così, ha ammonito implicitamete il papa, anche la natura umana non potrebbe a lungo sopportare manipolazioni che ne alterino il suo patrimonio interiore, e non solo quello genetico.

Senza la coscienza comune, "naturale", del bene e del male, senza una ragione condivisa e un’apertura verso Dio creatore, l’uomo smarrisce sé stesso. “Oppure credete che il mondo di oggi vada abbastanza bene?” ha detto con un pizzico d’ironia teutonica il papa tedesco.

Certo, rimarrà impressa nel cuore e nella mente dei politici di tutto il mondo quella citazione agostiniana: senza la giustizia, che cos’è uno Stato se non “magnum latrocinium", una banda di briganti, un grande latrocinio?

Lo ha detto al Bundestag, a Berlino.

Almeno a Berlino non può mancare un giudice...


Mi permetto di citare un mio post sul pensiero agostiniano, che riporta la frase citata dal Papa:

sabato 24 settembre 2011

Autunno: non solo nebbia in Valpadana



Autunno. Una stagione dall’umore imprevedibile.

Talvolta lo trovi mite ed accogliente, altre volte è intrattabile e freddo.

Quel poco che ne è rimasto (si sa, le mezze stagioni non esistono più...) ti fa provare, magari nello stesso giorno, tutti i fenomeni atmosferici, mandando in tilt meteorologi e bollettini per naviganti...

In compenso funghi, castagne, polenta (e osei per bergamaschi e veneti), vino, olio e bruschetta compensano ampiamente le nebbie in Valpadana, le piogge in Toscana, lo scirocco in Sicilia e l’acqua alta a Venezia.

Una stagione, o quel che ne rimane, che ti sorprende comunque, nel bene e nel meno bene (speriamo senza frane e smottamenti quest’anno), e che prima dei rigori invernali ti fa sperimentare le ultime sensazioni di ciò che lasci e gli anticipi di ciò che ti aspetta.

Per una stagione così variegata, ci vuole una musica fremente, e anche un esecutore, anzi un’esecutrice, di grande temperamento.

Il musicista russo Alexsandr Nikolaievic Skrjabin (1872-1915) è un autore poco conosciuto, ma non per questo poco importante.
“Il suo modo di suonare appassionato, nervoso, colorito l’aveva reso celebre in tutta Europa e, dal 1906, anche in America” (H. H. Stuckenschmidt). 
Riprendeva la tradizione romantica di Chopin e di Liszt, per approdare a un tipo di composizione “personalissimo dal punto di vista armonico e melodico”.

Ovviamente la sua opera trovò poi forte ostilità nel nuovo corso dell’URSS, tanto che Shostakovic vedeva in lui “il rappresentante più pericoloso della borghesia musicale, e il più degno di essere combattuto”.

Ascoltiamo di Skriabin il celebre Studio op. 8, n. 12, impostato sul Re diesis minore, del 1894. Porta il titolo di “Patetica”, che evoca altre celebri sonate romantiche.

Uno Studio appassionato, con intervalli anche di undicesima (per sfidare le gigantesche mani di Rachmaninov, Skrjabin perse l’uso della mano destra!), ottave a ripetizione, e innumerevoli salti con la mano sinistra...

Un brano tanto difficile, quanto affascinante.

Come affascinante, e un po’ “crazy”, la pianista uzbeka Lola Astanova (1985), già enfante prodige, ed ora affermata concertista.

Un’interpretazione degna della “pazzia” di Skrjabin, e della meteorologia autunnale.

giovedì 22 settembre 2011

Un soffio indimenticabile

















https://youtu.be/f1YrefGvHgg


Tra i films che hanno fatto la storia del cinema un posto in prima fila lo occupa certamente “C’era una volta in America” di Sergio Leone (1984).

Non è solo la storia di New York all'epoca dei gangsters e del proibizionismo, ma è la metafora della realtà attuale: una società disgregata e violenta, dove anche i sogni più belli si tramutano spesso in amare delusioni.

La narrazione è accompagnata dalla musica di Ennio Morricone che qui raggiunge uno dei vertici assoluti, con il "tema di Deborah".

Un tema dolcissimo e quasi trasognato, che viene variato al variare delle situazioni, ma che dà un senso unitario alla narrazione e in certo senso ne stempera la crudezza.

Ci sono altri spunti tematici, come lo struggente "Poverty", che dimostrano la genialità del compositore romano.

A mio parere però il tema più originale e incisivo è quello che scandisce la tragica morte di Dominic, il più piccolo della banda di giovani delinquenti di Noodles ("Cockeye's theme").

Il gioioso saltellare del ragazzo è descritto inizialmente da un tema fischiettato (addirittura!), che improvvisamente con un semplice flauto di Pan si trasforma in un drammatico “grido di allarme" e che va a spegnersi con l’ultimo respiro di Dominic colpito a morte. 

La musica diviene allora in breve una serena e commossa composizione orchestrata, in una efficacissima antitesi con la mano di Noodles, bagnata dal sangue dell’amico, che si chiude rabbiosamente a pugno, pronta a sua volta a colpire.

È praticamente impossibile in due minuti dire tante cose con il soffio di un fischio e di un flauto di Pan (quello che si usava una volta da ragazzi...). Il tema è eseguito dal grande virtuoso di questo strumento, il rumeno Gheorghe Zamfir.

Ennio Morricone e Sergio Leone (e Zamfir) ci hanno lasciato due minuti indimenticabili.

sabato 17 settembre 2011

Il superuomo? Beethoven!



Beethoven rappresenta il massimo di ciò che il Romanticismo ha saputo esprimere.

Romanticismo è sinonimo di sentimento; e Beethoven ha saputo rapprentarne tutta la gamma musicale.

Un foglio d’album come “Per Elisa” ha emozionato generazioni di adolescenti. La “Sonata quasi una fantasia” (Al chiaro di luna) apre il cuore a orizzonti affascinanti e misteriosi.

L’Allegretto della VII sinfonia è un cammino di liberazione interiore, mentre la V ci mette davanti agli occhi anche il lato oscuro e drammatico della vita.

La contemplazione estatica della natura nella VI, l’inno alla vita (quasi dionisiaco) della IX, la forza della fede espressa dalla “Missa Solemnis”, sono aspetti qualificanti della sua “Weltanschauung”, della sua visione del mondo.

Ma c’è un ulteriore aspetto nel romanticismo beethoveniano che si riesce a gustare appieno nell’età adulta: il titanismo, e cioè la scoperta di quella forza immane che l’uomo ha dentro di sé e riesce a esprimere solo se lascia da parte ogni limite di convenienza, di opportunismo, di calcolo, di male.

Quando l’uomo dà libero spazio all’infinito che è in lui, allora ogni ostacolo viene travolto e si giunge alla piena realizzazione. Anche a costo del sacrificio della vita.

È ciò che si avverte, ad esempio, nell’Ouverture, op. 62, del Coriolano. Questi, posto dai suoi stessi familiari (la madre e la moglie) di fronte alla scelta suprema tra la sua vita e la salvezza di Roma, superando ogni desiderio di vendetta verso la patria che lo aveva esiliato, preferisce la morte: “Madre, tu salvi Roma, ma perdi un figlio”.

L’ouverture inizia con squilli guerreschi, si muove nel contrasto tra ritmi bellicosi e suadenti melodie, per concludersi in maniera quasi impercettibile. La grandezza di Coriolano sta nel suo valor militare, ma ancor più nell’aver saputo annientare il suo odio facendo prevalere i sentimenti più nobili, fino all’offerta della propria vita.

Grande nella vittoria a Corioli, ma titanico nella vittoria contro sé stesso.


Pasquino stanco







Quanno so’ stanco e nun vojo fa’ gnente,
me vien da scrive’ sol qualche cazzata;
e me viene accusì, spontagnamente,
come quanno te scappa ‘na pisciata.

Forse ho capito ‘ndove sta er tranello,
er motivo de questo brutto annazzo;
me se spegne la luce der cervello,
e s’accende più ggiù quella der cazzo.


giovedì 15 settembre 2011

Mater dolorosa



Tra i “peccati di vecchiaia” (così diceva scherzosamente), Gioachino Rossini ci ha lasciato la "Petite Messe Solennelle", che tutto è fuorché “petite”. È una grandissima opera d’arte, soprattutto geniale, che più volte abbiamo postato in alcune sue parti.

L’altro “peccato di vecchiaia” è un omaggio di amore alla Madonna, un solenne “Stabat Mater” (1842).

Forse qui il genio di Pesaro si lascia prendere un po’ la mano da quella musica d’opera che aveva ormai abbandonato da anni e che gli aveva permesso di scrivere capolavori immortali. Un po’ di teatralità non manca in questa composizione.

Ma ci sono anche autentiche perle di bellezza, che fanno passare in secondo piano ogni altra considerazione.

Oggi, 15 settembre, si ricorda la Mater Dolorosa, Maria ai piedi della croce, da dove pendeva il Figlio. Lo Stabat Mater è la sequenza liturgica di questa giornata.


Dallo Stabat Mater di Rossini, di cui ho già parlato e presentato un  celebre brano (http://semperamicus.blogspot.com/2009/09/laddolorata-stabat-mater-rossini.html), propongo questa volta l’ultima strofa:

“Quando corpus morietur, 
fac ut animae donetur
paradisi gloria”

(Quando il corpo morirà, fa’ che all’anima sia data la gloria del Paradiso).

Anzitutto Rossini in questa strofa sceglie di usare solo le voci, senza accompagnamento di strumenti; pura polifonia a cappella, come Palestrina o Ludovico da Victoria. E non è un fatto da poco, nell’epoca del melodramma!

Non posso interpretare le sue intenzioni, ma mi piace pensare che abbia scelto le nude voci per esprimere anche nella struttura compositiva la realtà della morte: lo spogliamento da ogni orpello.

Il primo versetto (“quando corpus morietur”) è una mesta melodia discendente, intonata dai baritoni e seguita dalle altre sezioni, fino ai soprani.

Alle parole “paradisi gloria” sono i soprani invece che, con un improvviso e stupendo slancio vocale verso l’alto, trascinano poi tutti gli altri cantori verso le vette del “paradiso”.

Il resto del brano vive nel contrasto tra morte e vita eterna; ma ormai lo squarcio verso il cielo è avvenuto, e il brano è un commosso atto di fede nella risurrezione.

Qui Rossini ha raggiunto davvero la perfezione. Non solo musicale.

lunedì 5 settembre 2011

In the beginning



Settembre. Si ricomincia.

Ogni ripartenza è impegnativa.

E ogni anno che passa è sempre più in salita...

Occorre perciò un po’ di sprint. Per me aumenteranno di certo i caffè quotidiani, le notti insonni, gli orari impossibili da dedicare al web.

In compenso avrò modo di riprendere il cammino della filosofia, in compagnia di Platone, Aristotele, Agostino, Tommaso, Cartesio, Pascal, Leibniz, Hume, Kant, Hegel, Marx, Kierkegaard, Schopenhauer, Nietzsche, Bergson, Heidegger, Maritain, Adorno, Bultmann, Ratzinger...

Mi farà piacere tornare sulle loro domande e relative risposte, insieme a quelle degli studenti con cui avrò a che fare.

Mi sono sempre proposto di rispettare le varie opinioni e di esprimere le mie con chiarezza. La verità non ha bisogno di additivi chimici: brilla di luce propria.

E se uno segue la luce della propria coscienza, prima o poi la partorisce.
Come diceva Socrate.

Un po’ di bella musica non guasta, per dare il ritmo giusto alla ripartenza.

La prendiamo da Robert Schumann (1810-1856).
Anche in un autore che della vita ha consosciuto soprattutto i problemi, non mancano certo pagine di serena contemplazione.

Ascoltiamo perciò il IV movimento, "Allegro ma non troppo", del Quintetto op. 44, in Mi bemolle maggiore, per pianoforte ed archi, del 1842.

Un capolavoro di bellezza. Un invito ad ascoltare tutti e quattro i movimenti. Il secondo, in modo particolare ("A modo di una marcia"), celeberrimo e da me già postato.

Buon inizio di tutto (lavoro, scuola, pensione...) !